Derivati: croce o delizia?
Riprendiamo un argomento che si può considerare a pieno titolo centrale nell’educazione finanziaria: è consigliabile avventurarsi nel campo dei derivati oppure è meglio astenersene, lasciando queste “diavolerie” agli sherpa della finanza?
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la nostra risposta non è negativa, o almeno non lo è in assoluto, nel senso che non ce la sentiamo di demonizzare un’intera categoria di strumenti che, usati cum grano salis, potrebbero invece essere molto utili.
La risposta alla domanda iniziale non può quindi che essere: dipende. Dipende in primo luogo dagli obiettivi che ci proponiamo e dall’assetto patrimoniale dell’investitore, ma soprattutto dal suo grado di conoscenza dei mercati e di propensione al rischio.
Non a caso abbiamo parlato di “investitore” e non di “speculatore”. Il punto di vista che esaminiamo in queste note è infatti quello di chi intenda impiegare i propri risparmi in modo consapevole e razionale. Ciò può comprendere, e normalmente comprende, l’assunzione di un certo grado di rischio a fronte di una prospettiva di maggiore rendimento. L’importante è che l’investitore sia pienamente conscio dei rischi che sta correndo e che sia in grado di assorbire l’eventuale perdita in cui può incorrere.
Diversa l’attività, e anche gli obiettivi, dello speculatore. Chi opera in finanza sa bene che gli speculatori svolgono una funzione importante sui mercati, funzione che entro certi limiti è fisiologica ed anche benefica. Si tratta di una vera e propria attività imprenditoriale, finalizzata al conseguimento di un profitto che remuneri il capitale, naturalmente esposto al rischio di impresa. Il capitale che viene impiegato in un’impresa è infatti “strutturalmente” soggetto ad un alto livello di rischio, che si riflette nel suo maggior costo. Ovvero, ogni impresa, per poter “ripagare” il capitale che viene fornito dai soci, deve remunerarlo a un rendimento ben maggiore di quello corrente sul mercato finanziario. Tanto che si parla di “premio al rischio”.
Tutto questo per dire che lo speculatore, fra le frecce al proprio arco, ha sicuramente molti derivati ed è abituato a maneggiarli. Diverso il discorso del risparmiatore.
La prima funzione dei derivati è infatti quella storica della “copertura”, tecnicamente chiamata “hedging”. Si tratta di una sorta di assicurazione del rischio, che consente di proteggere l’investimento dal verificarsi di un evento sfavorevole.
Facciamo un esempio che chiarisca il concetto. Supponiamo che il nostro risparmiatore decida di acquistare una obbligazione a 5 anni in dollari, contando di guadagnare sul differenziale dei tassi, poiché il tasso sul dollaro a 5 anni è superiore a quello sull’euro per la stessa scadenza, ad esempio del 4% rispetto all’1%. Nel corso dell’investimento, potrebbe capitare che il dollaro si deprezzi del 5% all’anno rispetto all’euro, ovvero che il suo cambio passi da 1,20 a 1,45.
EURO | Cambio | Perdita | DOLLARI | |
Investimento iniziale | 100 | 1,20 | 120 | |
Interessi annuali | 1 | 4,8 | ||
Interessi totali | 5 | 24 | ||
Netto ricavo finale | 105 | 144 | ||
99,3 | 1.45 | 5,7 € |
Per effetto del deprezzamento, aver investito in dollari in questo caso comporterebbe una perdita dei 0,7 € in conto capitale e un mancato guadagno complessivo di 5,7 €, nonostante che il dollaro abbia un tasso di interesse maggiore.
Ma se ci troviamo al terzo anno e fino a quel punto il dollaro ha perso solo l’1%, potremmo neutralizzare ulteriori eventuali perdite di cambio attraverso un derivato. Nell’esempio di cui sopra, alla fine del terzo anno avremmo da una parte 103 €, e dall’altra 134,4 $ che, al cambio meno penalizzante €/$ di 1,212, corrisponderebbero a 110,9 €.
In particolare, in questo caso, potremmo fare una vendita a termine dei dollari, che ci consentirà di determinare il cambio del netto ricavo in valuta alla scadenza del titolo, senza più temere brutte sorprese e considerando acquisito il maggior guadagno di 8 € che l’operazione ha prodotto fino a quel momento. Potremmo pertanto, alla fine del terzo anno, vendere 144 $ con scadenza fine quinto anno, al cambio di 1,212 oltre al costo finanziario per l’operazione che per semplicità qui trascuriamo.
In questa ipotesi, come si vede, il derivato ha eliminato un fattore di rischio dell’investimento ed ha dato luogo ad una situazione più prudente. Occorre dire che il cambio a termine del dollaro (il cosiddetto strike) incorporerà anche il differenziale tassi, per cui il guadagno sullo spread – da quel momento in poi – sarà azzerato. Ma il guadagno pregresso sarà comunque definitivamente acquisito.
Ben diverso il caso dello sprovveduto che si avventura, senza disporre delle necessarie conoscenze, nelle opzioni su future sulle valute, magari convinto da pubblicità ingannevoli che magnificano presunti guadagni fantastici senza impiego di capitale.
Come diceva Keynes, con una delle sue frasi di maggior successo che anche in questo blog abbiamo spesso citato, “non esistono pasti gratis”. E’ vero che è possibile operare sui derivati in valuta con ricorso alla leva, stanziando solo una somma limitata rispetto al volume movimentato, ma è anche vero che questo modo di fare ha più attinenza col mondo delle scommesse che con quello della finanza.
Le molte piattaforme c.d. “forex”, ovvero di trading di valute, che sono offerte su internet spesso in modo fuorviante e ingannevole, hanno in realtà un’unica certezza: quella del guadagno in commissioni per l’intermediario. Per l’investitore possono rappresentare un’utile diversificazione del portafoglio ma anche una fonte di perdita continua.
Soffermiamoci intanto sul concetto di “leva finanziaria”, ovvero della modalità di investimento che consiste nell’impiegare, in determinate proporzioni, capitale proprio e capitale preso a prestito. Se operiamo ad esempio con leva 5, vuol dire che impiegando 10.000 euro del proprio capitale, potremo investirne fino a 50.000. Naturalmente sugli altri 40.000 pagheremo un interesse, ma se ad esempio il nostro investimento realizza un profitto del 5%, ovvero 2.500 euro, il tasso di rendimento del capitale impegnato, i 10.000 euro, sarà del 25%.
In pratica l’intermediario dà corso all’operazione “congelando” i nostri 10.000 euro sul conto, ovvero rendendoli indisponibili (il cosiddetto “margine”) fino a che l’operazione sia in piedi. Qualora la perdita raggiunga il margine, l’operazione viene chiusa automaticamente e il capitale viene utilizzato per coprire la perdita.
E’ quindi evidente che una somma iniziale da impiegare è indispensabile. Tale somma può certamente anche essere minima, ma in tal caso è evidente che per guadagnare cifre significative dovremo fare molte operazioni (per la gioia dell’intermediario) o assumere grandi rischi.
Nel prossimo articolo continueremo a parlare di leva e margini e vedremo quali sono i derivati più comuni per il trading su valute e su commodities.
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