La difficile relazione tra le donne e il denaro

La difficile relazione tra le donne e il denaro

Mar, 04/04/2017 - 07:39
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Un’altra tappa alla scoperta del mondo della donna che lavora nel tempo dell’economia digitale, questa volta in finanza. Problemi vecchi, opportunità nuove, disparità e violenze.

Dopo la tecnologia, le occasioni sprecate per il capitale umano femminile e il tema delle “infiltrate” di cui ha parlato con passione e competenza Chiara Falletti; e il ruolo delle donne in banca, le disuguaglianze e le loro prospettive, di cui ha parlato con esperienza e cuore  Alessandra Orlando, è ora la volta di Claudia Segre che ci parla del difficile rapporto fra donne e denaro.

Un rapporto di cui traccia l’involuzione da fulcro della gestione delle risorse di casa a un ruolo defilato e secondario, quando non oggetto di strumentalità e violenza.

Il nostro viaggio continuerà prossimamente con un altro intervento di Chiara Falletti, una sorta di “decalogo” per donne e uomini per superare e risolvere i problemi che sono stati evidenziati, e con un contributo sul capitale erotico.

Buona lettura.


 

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Son diversi gli aspetti nei quali la relazione tra le donne e la finanza si sviluppa e così l’emancipazione femminile prima e l’ingresso nel mondo del lavoro poi hanno offerto alla donna la possibilità di uscire da certi stereotipi, che erano però il fondamento di una gestione del budget famigliare oculata ed efficiente. Infatti sino al deflagrare della seconda guerra mondiale la donna era il centro economico e finanziario più efficiente possibile, una governance e un senso dell’etica nell’economia familiare  annotata sui “libri di casa”, sulle agende, sulle buste sempre attenta a far quadrare i conti di casa.

Poi e’ arrivato il momento di mettersi in gioco per sostenere lo sviluppo del paese dopo il conflitto: con l’accesso al voto, alle Università e al mondo del lavoro nei suoi aspetti più vari e vasti le donne hanno cambiato il volto del Belpaese. Ma è uno scenario quello attuale fatto ancora di luci ed ombre e nel quale la nostra Fondazione Global Thinking Foundation cerca di dare il suo contributo sul filone della formazione e della diffusione dell’educazione finanziaria, per fare la differenza o per aiutare istanze di inclusione sociale che devono diventare imprescindibili per la società civile.

Vediamo quindi di seguito le casistiche che hanno evidenti impatti socio economici.

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CARRIERA IN FINANZA.  Se in molti settori come in magistratura, notariato, sanità, scuole ormai la presenza femminile e l’affrancamento salariale hanno ridotto notevolmente il differenziale di genere, in finanza questi divari ancora resistono imperterriti. E la recente crisi bancaria che ha colpito duramente il settore del credito ha provocato migliaia di perdite di posti di lavoro da un lato e perdite per migliaia di risparmiatori dall’altro.

Per le donne che lavorano in finanza, gli stipendi così come i bonus e i premi “di produzione” in Italia non sono mai stati lontanamente paragonabili con quelli delle banche estere, soprattutto anglosassoni, e da qui sino a pochi anni fa la migrazione a Londra di molti “talenti”. Certe cifre son sempre state destinate ai manager di alto livello, che al 95% erano uomini, fino all’epoca della crisi globale.

Poi, come in tutte le guerre, le inevitabili perdite di risorse hanno lasciato maggiore spazio alle donne, che nella finanza italiana hanno iniziato ad occupare ruoli commisurati alla preparazione e all’esperienza professionale, anche se il retaggio di una certa mentalità che non vedeva di buon occhio le donne “in dolce attesa” in ruoli operativi  è stato duro a morire.

 

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In quest’era post crisi globale non vedo però molti spazi né opportunità per le nuove leve femminili, o meglio manca la volontà di accettare un maggiore equilibrio nell’accesso alla carriera in finanza.

Occorre constatare che i recenti casi che connotano il mondo bancario italiano sono forieri di pessimi esempi di un mondo della finanza bancaria legato a generazioni e a modalità di business in cui la discontinuità creata da una presenza femminile  avrebbe sicuramente mitigato gli effetti nefasti per le future generazioni.

 

ISOLAMENTO ECONOMICO. Poi ci sono le donne che subiscono isolamento economico e quindi violenza economica. Un fenomeno questo che rientra nella violenza domestica decisamente più subdolo e difficile da far emergere se non quando è troppo tardi perché diventa impedimento alla richiesta di aiuto per le donne in difficoltà. Troppo spesso le donne  vengono private dei mezzi economici per non permettere loro di affrancarsi da uno stretto controllo dell’uomo anche quando si tratta di professioniste, donne che svolgono quindi attività professionali e che quando il rapporto non pone problemi sono più accondiscendenti nell’accettare il limitato accesso alle informazioni ed alle risorse economiche e finanziarie di famiglia.

L’occultamento dei mezzi finanziari passa da una normalità quasi ordinaria ove, come frutto di una cultura patriarcale, è l’uomo a gestire i conti correnti con firma congiunta: i pagamenti ordinari di  bollette e affitti sono gestiti interamente dal partner di sesso maschile. Da qui si passa nei casi estremi a livelli cosiddetti di violenza economica limitante per cui le donne hanno accesso solo a piccole somme per gestirsi, e poi controllante o addirittura delinquenziale quando si arriva a far firmare documenti come prestanome, assegni scoperti o peggio nel caso di imprese familiari.

 

Da questi esempi sembrerebbe tutto a sfavore della donna  ma se si vanno a guardare con attenzione le indagini che fotografano la capacità di dare esito corretto a domande di economia e finanza di base per Standard& Poor’s  & Gallup su 148 Paesi nel 2015 la differenza di genere si pone al 7%, mentre negli USA al 10%, ed in Italia al 15%. Mentre per Allianz sulla percezione del rischio e sul valore della diversificazione il gap sale addirittura al 35%.

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Questi risultati deludenti per il genere femminile nel nostro Paese non sono certo frutto di una mancanza di capacità intellettiva quanto di un’attitudine ad un maggiore senso etico e concreto della donna che, di fronte ad una domanda di cui non conosce appieno la risposta, preferisce farsi da parte piuttosto che sparare una risposta qualsiasi o facendo un bluff o mentendo.

 

Un problema di autostima quindi che arriva a condizionare le scelte economiche ma anche a cogliere le opportunità di carriera o a farsi valere sulle richieste salariali quando il divario è chiaramente discriminante. Ma è anche consapevolezza dei propri limiti e mancanza di coraggio, un grido di aiuto che non deve passare inascoltato e che la società deve fare suo per non arrivare poi al degenerare di situazioni che vedono le donne sempre di più isolarsi nella società, fino a diventare talvolta vittime di una catena di violenze tristemente attuali.

Un fenomeno che come si sa rappresenta la prima causa di morte per le donne tra i 18 e 44 anni, ove per gli uomini della stessa età è l’incidente stradale la causa paragonabile. In parole povere il femminicidio uccide più delle malattie e degli incidenti stradali, con un costo sociale abnorme che già nel 2013 superava i 17 miliardi di euro.

Le critiche sulla mancata erogazione degli stanziamenti relativi la Legge 119/2013 sul femminicidio che si sono accumulate negli anni hanno penalizzato l’azione di molti centri anti violenza e case rifugio e speriamo che la riflessione porti più voci della società civile a dare  un fattivo contributo ad un aspetto della vita sociale del Paese nel rispetto della Convenzione di Istanbul  vincolante per il nostro Paese che ribadisce la priorità di intervenire in prevenzione e sensibilizzazione per un reale cambiamento.

 

CLAUDIA SEGRE (*)

Claudia Segre

 


(*)

Claudia è presidente di Global Thinking Foundation, impegnata nello sviluppo dell’educazione finanziaria. Ha incentrato la sua carriera specializzandosi sui mercati finanziari internazionali e nell'approfondimento delle dinamiche geopolitiche globali ricoprendo ruoli di responsabilità  manageriali nelle capogruppo di Gruppo Intesa, Unicredit e Credem.  Direttore Responsabile delle Pubblicazioni e Membro del Consiglio Direttivo di ASSIOM FOREX. Membro del Comitato Tecnico Scientifico di Adiconsum Lombardia. Ha collaborato con diverse Università italiane e attualmente è docente per ASSIOM FOREX, per il Master CIBA Eraclito 2000 e per la Fondazione per l’Educazione e il Risparmio (FEDUF)  dell’ABI.

 

Commenti

Bello leggere di donne che parlano di donne e lavoro. Sono tre interventi molto diversi tra loro, non solo nei contenuti, tutti interessanti.
Noto però che in tutti e tre c’è un tema assente che, nell’ambito della disparità di genere, ha un peso importante: la politica.
L’Italia è da sempre considerato uno stato all’avanguardia per le leggi in materia di tutela della maternità e di conciliazione, ma è stato una politica in favore delle donne o no? Non è che la disparità che continua ad essere evidenziata in termini di ruoli e di retribuzioni è generata anche da una normativa essa stessa sessista?
Fare leggi che consentono alle donne, e solo a loro, di astenersi dal lavoro per lunghi periodi o che consentono alle donne di conciliare il tempo di lavoro e il tempo di famiglia, non sottintendono che i figli e la famiglia sono cose da donne e che solo le donne devono conciliarle con il lavoro?
Non appena si cerca di introdurre per legge un periodo di “paternità” obbligatorio (oggi siamo al ridicolo di 2 giorni obbligatori e 2 facoltativi, ben inferiori ai quattro mesi di astensione obbligatoria per le donne) si assiste ad un’alzata di scudi. Lo stereotipo di genere è ben lontano dall’essere superato.
E se le donne che lavorano devono combattere non solo per difendere la propria professionalità ma anche contro i sensi di colpa, non va meglio agli uomini che si trovano a combattere contro i pregiudizi. Gli uomini che rivendicano il loro ruolo in famiglia sono spesso oggetto di derisione da parte dei colleghi e a loro volta rischiano di essere penalizzati.
Dove l’evoluzione culturale e sociale non arrivano spontaneamente, occorre un intervento deciso della politica.
Nei paesi del nord europa, dove la parità di genere è quasi dato di fatto, il legislatore continua ad operare in tal senso. La Norvegia ha introdotto le quote di genere nel 2004.
Oggi in Svezia le famiglie hanno diritto a 480 giorni di congedo parentale pagato, 90 devono essere goduti, obbligatoriamente, dalla madre e 90 dal padre, i restanti giorni possono essere gestiti liberamente dai genitori.
Una settimana fa l’Islanda ha promulgato una legge che obbliga la parità di retribuzione, a parità di qualifica, tra uomini e donne. Si tratta di una legge innovativa e fortemente coercitiva, i datori di lavoro saranno sottoposti a controlli e dovranno documentare periodicamente l’ottemperanza a tale obbligo.
In Italia, la legge Golfo Mosca del 2011, che obbliga le aziende ad avere negli organi sociali almeno un quinto del genere meno rappresentato, ha fatto sì che la percentuale delle donne nei consigli di amministrazione delle società quotate e partecipate passasse dal 5,6% del 2008 al 30% del 2016.
Purtroppo non c’è stata la stessa crescita sulla scelta dei vertici aziendali ed ancora non possiamo valutare se, scaduta la legge, il cambiamento sarà duraturo, ma dobbiamo insistere affinché la politica si faccia carico di promuovere strumenti che prevengano ogni genere di discriminazione e diano opportunità di crescita, anche in termini di carriera e di retribuzione, alle donne nelle istituzioni, nelle imprese e nelle professioni.

Grazie Silvia, le tue osservazioni sono molto pertinenti e secondo me condivisibili. Il punto di vista che abbiamo affrontato nel blog in effetti non comprende in prima battuta gli aspetti politici, quanto quelli economici. Siamo partiti dallo spreco di risorse in termini di capitale umano femminile: la new economy potrebbe essere l'occasione di superare questo gap, ma le indicazioni non sono confortanti.
In uno dei prossimi interventi parleremo anche di politica, intesa soprattutto come policy che, al di là dell'assetto normativo, preveda misure concrete di intervento per favorire un'effettiva parità.
Un aspetto sul quale sono perplesso é invece quello delle "quote rosa" nei consigli di amministrazione: se ha consentito di evidenziare una effettiva carenza e di "scoprire" nuovi talenti femminili, rischia però di essere talvolta troppo rigido nell'ottica dell'esclusivo interesse delle società amministrate.
Anche questo mariterebbe un non facile approfondimento di natura qualitativa: con la maggiore presenza delle donne é migliorata, e come, la qualità del lavoro e dei rapporti nei CDA?