Il Capitale Etico (2)

Il Capitale Etico (2)

Mar, 09/05/2017 - 07:07
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Nel precedente articolo avevamo visto i fondamenti filosofici e storici della business ethics, l’etica degli affari, e ci eravamo lasciati chiedendoci se ha senso oggi parlare di capitale etico e se questo concetto possa essere in qualche modo valorizzato.

Nella serie sulla “quadrilogia del capitale”, avevamo indicato quali possono essere considerati gli elementi costitutivi comuni dei diversi concetti di capitale (il capitale economico, quello sociale, quello umano e quello erotico):

 

ACCUMULAZIONE ®  VALORE ®  PRODUZIONE ®  DISPONIBILITA’

 

Si tratta quindi ora di vedere se il capitale etico, come lo abbiamo descritto nell’articolo della scorsa settimana, possiede questi elementi e in che misura.

Nessun dubbio in merito all’accumulazione e alla produzione.

Certamente il capitale etico è suscettibile di accrescersi e svilupparsi, qualora – partendo da una base di valori generalmente condivisa nell’ambito di una comunità – vengano favoriti comportamenti improntati alla correttezza e alla tutela del bene comune e siano invece puniti, con sanzioni rigorose e soprattutto certe, atti illeciti di ogni tipo, chiunque ne sia l’artefice.

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Non soltanto: un sistema fondato su tali principi risulterà alla lunga più efficiente e funzionale per la collettività rispetto ad un sistema in cui sono diffusi e tollerati comportamenti immorali e border line. Basti pensare ai paesi o regioni in cui la corruzione imperversa e non esiste certezza del diritto: sicuramente un bengodi per i corrotti, ma è ben difficile che imprenditori seri e capaci siano disponibili ad investirvi risorse.

Solo un sistema etico e fondato sulla legalità garantisce pari opportunità e può pertanto premiare i migliori, quelli più efficienti, e non i favoriti che traggono profitto dall’illegalità in virtù di rapporti preferenziali o dell’uso di violenza tout-court.

 

In questo caso, ovviamente, il concetto di “produzione” va allargato in modo tale che possa comprendere anche i beni comuni e non solo beni e servizi privati. Forse avremo qualche difficoltà a misurarne il valore, ma concettualmente è del tutto evidente che un sistema a eticità diffusa renda più facile migliorare risorse della collettività e qualità della vita.

Anche sotto il profilo della disponibilità, non ci sono particolari ostacoli a comprendere come il capitale etico, ovvero il complesso dei valori e dei comportamenti orientati al perseguimento del bene comune, sia disponibile e anzi lo sia per tutta la comunità e anche per chi vi entra in contatto da fuori. Ancora una volta si pensi all’investitore estero oppure all’esportatore che sicuramente sarà avvantaggiato potendo operare in un mercato di regole certe, trasparenti e improntate all’etica.

 

Il problema sta invece nel valore: quanto vale l’etica dei diversi soggetti che fanno parte di una comunità? E vale di più un operatore corretto e scrupoloso oppure uno spregiudicato e di dubbia moralità?

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L’esperienza di Tangentopoli, a cui si faceva riferimento nell’articolo precedente, ha mostrato come sia ancora possibile praticare corruzione e immoralità, perché questa genera – in sistemi che lo consentono – masse enormi di denaro che a loro volta alimentano connivenze o complicità.

 

Un’impresa che abbia ottenuto illecitamente un appalto pubblico, ad esempio, avrà molta più facilità di corrompere soggetti (pubblici e privati), assicurandosene la collaborazione, rispetto un’impresa ligia ed osservante delle regole.

In mancanza di un senso diffuso di giustizia sociale, la forza economica di chi può permettersi di ignorare le regole, o peggio ancora di dettarle a proprio uso e consumo, diventa inarrestabile. E’ naturale che se un sistema non tutela le condizioni dei lavoratori, chi può utilizzare forza lavoro a basso o bassissimo costo ha un vantaggio importante rispetto a chi osserva contratti e paga i contributi.

 

Purtroppo il sentiment prevalente tende quasi ad ammirare chi ottiene successo personale ed economico e realizza ingenti profitti, talvolta muovendosi ai limiti della legalità o quanto meno dell’etica. In altri termini, si tende a giustificare chi, per conseguire il proprio successo personale, ricorre a comportamenti spesso discutibili sul piano etico e morale, quali l’elusione fiscale o la spregiudicatezza negli affari.

Siamo così arrivati alla sublimazione del machiavellismo, dove non solo “il fine (arricchimento) giustifica i mezzi”, ma addirittura si contrappone la furbizia, intesa come capacità di evitare situazioni negative e oneri, all’onestà e alla correttezza. Meglio essere furbi che onesti, insomma. Soprattutto nel nostro paese non sono mancati esempi di imprenditori e uomini d’affari che si sono imposti all’ammirazione generale, ottenendo anche consenso politico, nonostante le vaste zone d’ombra sul loro passato e sulle modalità di arricchimento.

Temo quindi che il complesso di prerogative che costituisce il capitale etico non sia considerato oggi un valore, quanto piuttosto un fastidioso e inevitabile ostacolo al libero dispiegarsi dell’iniziativa privata.

Il valore specifico dell’interesse particolare è oggi sensibilmente superiore a quello dell’interesse generale e il capitale etico, al di fuori di contesti religiosi o fortemente ideologizzati, più che un valore rischia di essere quasi un “disvalore”.

La giustizia, dopo avvisi di garanzia e imputazioni spesso di grande clamore mediatico e visibilità, fatica a irrogare pene certe e definitive. Il disprezzo sociale per corruzione e malaffare è ormai attenuato da una certa assuefazione a notizie eclatanti di arresti e indagini che spesso sono fuochi di paglia.

Nella scala dei valori sociali, per le nuove generazioni fa molta più presa il successo televisivo conseguito in breve tempo, che non il rispetto dell’etica del sacrificio, della fatica, della dura gavetta.

Per questo non credo che oggi si possa parlare di capitale etico in senso economico alla stregua delle altre tipologie di capitale descritte nella nostra “quadrilogia”.

Commenti

Ho apprezzato la seconda puntata, relativa al capitale etico, più della prima, che mi aveva invece portato in una strana condizione giudicante, in cui non riuscivo a distaccarmi dalla considerazione che fosse solo una ricerca forbita di possibili appigli su un argomento forse inaspettato.

Tornando alla seconda puntata, subito all’inizio, quando si afferma “ … Nessun dubbio in merito all’accumulazione e alla produzione. Certamente il capitale etico è suscettibile di accrescersi e svilupparsi … “, mi si è presentata alla mente una frase che mi aveva colpito fin da ragazzo.

"La virtù può essere insegnata?”

La domanda se la poneva Socrate, quattro secoli prima di Cristo.
Cercando su internet, si trova una bella paginetta al riguardo, che argomenta proprio sui concetti esaminati nella seconda puntata, saltando dall’etica alla politica, dall’onestà alla correttezza, alla capacità di agire bene (una parola per me nuova : euboulia). Solo per il piacere di condividere, riporterò alla fine la paginetta trovata su internet; ma non voglio per ora distogliere l’attenzione dal tema principale.

Torniamo a noi : accumulazione, valore, produzione, disponibilità.
Di questi quattro elementi, costitutivi di un “capitale”, il secondo (il valore) è quello che sembra non essere abbinabile al capitale etico. Concludi infatti dicendo che : “Per questo non credo che oggi si possa parlare di capitale etico in senso economico alla stregua delle altre tipologie di capitale descritte nella nostra “quadrilogia”.
Ma basi questa affermazione esclusivamente sul fatto che "il valore specifico dell’interesse particolare è oggi sensibilmente superiore a quello dell’interesse generale".

E’ sicuramente vero che l’egoità caratterizza la nostra epoca, in cui si sono raggiunti livelli di individualismo veramente assurdi.
E’ vero che il bambino appena nato impronta la sua crescita proprio sulla scoperta e valorizzazione della propria individualità e sulla bramosia di accumulare qualsivoglia capitale, a suo proprio uso e consumo, e sicuramente a discapito dell’altro.
E’ vero altresì che il bambino appena nato, viene proprio da una realtà opposta, dove la sua individualità è nulla, a favore di una “unità” completa, con quello che poi da grande gli insegneranno a definire “altro da sé”.
E’ vero anche, che da vecchi si tende a dare sempre meno valore al capitale accumulato, si tende a “darlo via”, quasi si cominciasse a sentire nuovamente quella partecipazione al tutto, alla natura, alla terra, dove in effetti tutti andremo a finire, a confondere il nostro sé, che forse poi è solo una grande illusione (anatta, l’inconsistenza del sé, in lingua Pali, l’antico Sanscrito).
Forse, se l’uomo si fosse dedicato un po’ meno a coltivare questo sé, si sarebbe sentito, un po’ di più, parte della natura, e quindi avrebbe saputo conservarla meglio, gli sarebbe venuto più spontaneo, come spontaneo gli viene di pensare prima di tutto a sé stesso.

Ma lasciamo perdere i discorsi, andiamo ai fatti : ti porto la mia esperienza lavorativa personale.
Mi sono laureato in Scienze dell’Informazione nel 1976. Come puoi ben immaginare da allora l’informatica si è evoluta in maniera impressionante. Negli ultimi anni della mia carriera lavorativa, trentacinque anni dopo, io ero sicuramente diventato “obsoleto”. I giovani informatici, laureati o meno, avevano conoscenze tecniche, che io stentavo a capire, forse perché non avevo più voglia di capire, dopo quarant’anni di aggiornamento continuo, per stare dietro ai numerosi cambiamenti, spesso di grande portata.
Eppure, proprio nell’ultimo quinquennio ho fatto il salto di carriera più grande. Ormai in prossimità di pensione (mi mancavano un paio d’anni se non si fosse intromessa la Fornero) sono stato contattato e mi hanno offerto una grossa responsabilità, dirigere un dipartimento composto da 14 dirigenti e 130 dipendenti, mentre fino ad allora non avevo mai diretto più di 15 collaboratori.
A quel Direttore Generale, non gli conveniva prendere un giovane ?, sicuramente più esperto delle nuove tecnologie, con più energia e più voglia di fare, magari anche un po' più spregiudicato ? Perché io ? Quale era il mio “valore” ?, visto che tecnicamente ero obsoleto ? Lo capii istantaneamente e questa consapevolezza mi diede la forza e la voglia di accettare la sfida. Il mio grande valore era l'onestà !
“Mi fido di te” mi disse, e per lui era quanto bastava. Dopo sei mesi mi fece gli auguri di Natale dicendo “ … e grazie per quello che mi hai insegnato in questi mesi … per quello che sei! “

Dunque il mio “capitale etico”, ciò che tutti quelli con cui avevo avuto a che fare in ambito lavorativo avevano potuto constatare ed apprezzare, pur nei normali contrasti, ha avuto un VALORE, in senso economico, non solo per me, ma anche per l'azienda, visti i risparmi economici che siamo riusciti ad ottenere.

Per questo credo che oggi non solo si possa, ma si DEBBA parlare di capitale etico, in senso economico, alla stregua delle altre tipologie di capitale descritte in questa strana “quadrilogia”.

Non abbiamo scampo ! O cambiamo strategia, abbandonando per sempre la logica del profitto (solo mio ed immediato) e ci riappropriamo di questo sentirci una cosa sola, o almeno “sulla stessa barca”, oppure va tutto alla ballodole.

Grazie per l'ascolto.
Marco Falletti

Grazie dell'attenzione e del contributo, come al solito molto stimolante, che propone diverse riflessioni e approfondimenti. Molti dei tuoi punti sono condivisibili, tutti interessanti, compresa la vicenda personale, dove forse però a essere valorizzata è più l'onestà e l'affidabilità morale che non l'etica in senso stretto. Anche il tema dell'"insegnamento della virtù" - e più in generale della formazione del personale - è un tema molto trattato in questo blog e sul quale torneremo a più riprese.

Segue il testo della paginetta citata all'inizio ...
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La virtù può essere insegnata?
Socrate presenta pubblicamente la questione che aveva posto a Protagora in privato: quale sarà il profitto che Ippocrate trarrà dalla synousia con lui? Il sofista risponde genericamente che, frequentandolo, il giovane sarebbe divenuto di giorno in giorno migliore.

Socrate non si accontenta della risposta e chiede una specificazione, adottando di nuovo il modello della techne. Chi studiasse dal pittore Zeusippo di Eraclea diverrebbe certo migliore, ma nella pittura, e chi frequentasse il celebre flautista Ortagora di Tebe diverrebbe migliore nell'arte di suonare il flauto. In che cosa diverrebbe migliore Ippocrate, frequentando Protagora?

Protagora riconosce la correttezza della domanda, e risponde prendendo le distanze dalle technai - dunque dall'impostazione di Ippia di Elide, che è presente -: egli non insegna aritmetica, astronomia, geometria, musica, bensì l'euboulia tanto nell'amministrazione della casa, quanto in quella della città, rendendo gli allievi abili nel parlare e nell’agire. L'euboulia è, letteralmente, la capacità di deliberare bene: Socrate la identifica con la techne politica, il cui oggetto è la formazione di buoni cittadini. Protagora accetta la sua interpretazione.

Socrate, però, ha un dubbio: secondo lui la techne politica non può essere insegnata. Ne è prova il fatto che gli Ateniesi - i quali, a detta degli altri Greci, sono sapienti - in assemblea (ekklesia) ascoltano con attenzione gli architetti o gli ingegneri navali, quando danno il loro parere su questioni inerenti le tecniche di cui sono esperti, mentre sbeffeggiano e mettono a tacere gli incompetenti che prendono la parola su questioni di cui non sanno nulla. Però, per quanto riguarda l'amministrazione della città chiunque, senza aver fatto nessuno studio e senza aver avuto nessun maestro, prende la parola senza che nessuno ne contesti la competenza. Evidentemente, conclude Socrate, gli Ateniesi credono che simili materie non possano essere insegnate. Questo è dimostrato anche dal fatto che i due figli di Pericle, che pure sono stati istruiti con cura in tutto ciò in cui era possibile trovare un maestro, per quanto riguarda l'arete sono stati lasciati allo stato brado, forse nella speranza che se ne imbattessero per caso. Spetta dunque a Protagora dimostrare, sulla base della sua esperienza e delle sue scoperte, che l'arete - l'eccellenza politica che per gli antichi era identica all'eccellenza umana - può essere insegnata. Il sofista sceglie di venire incontro alla richiesta esponendo il suo argomento non con un ragionamento, ma sotto la forma di un mito, come fanno i vecchi con i giovani, in modo da risultare più gradevole.

Anche il Menone affronta il problema dell'insegnabilità della virtù: la tesi secondo la quale tutti gli Ateniesi sono maestri di virtù è sostenuta da Anito, in applicazione del principio fondamentale della democrazia diretta antica, secondo il quale il cittadino è, in quanto tale, politicamente competente, e messa in dubbio da Socrate. Il Socrate del Menone usa addirittura il medesimo argomento dell'educazione dei figli di Pericle e tratta la virtù dei politici ateniesi come qualcosa di inconsapevole e di fortuito, perché non fondato scientificamente. Se leggiamo il Protagora e il Menone come testi collegati, Protagora ha chiaramente il compito di difendere il principio della democrazia dalla critica di Socrate.
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Un articolo veramente interessante... che ci consente di accedere a nuovi modi di pensare.
Sarebbe bello istituire qualcosa (borsa di studio??) per incoraggiare i giovani, giovani imprenditori che possano presentare la propria idea di business etico ed innovativo...
Perchè credo che i tanti giovani, imprenditori e lavoratori autonomi di tutta Italia, forse sfiduciati dal periodo economico che viviamo, meritino una possibilità di emergere, di ripartire, di mettere a frutto le idee vincenti che cullano da tempo; vorremmo renderli veri protagonisti del futuro!
E le idee innovative debbono bastare, le idee e la fiducia, oltre chè il coraggio.
L'etica è la culla in cui far nascere le visioni!!!