Messico e Nuvole: Trump e la faccia triste dell'America

Messico e Nuvole: Trump e la faccia triste dell'America

Mar, 09/19/2017 - 07:42
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La faccia triste dell’America è quella di Donald Trump che, in piena globalizzazione e apertura dei mercati, costruisce un muro al confine col Messico per impedire ingressi non graditi e riporta in vita obsolete pratiche di protezionismo doganale.

La chiusura delle frontiere è tanto più estranea alla cultura americana quanto è evidente che, senza emigrazione, gli Stati Uniti che conosciamo oggi non esisterebbero. Ogni americano “è” qualcosa: italiano, irlandese, latino, russo, asiatico e così via. La ricchezza americana è nata proprio dal lavoro, dall’ingegno e dalle contaminazioni di coloro che ha sempre accolto, come è scritto alla base della Statua della libertà:

statua libertà

Di protezionismo poi, parlammo all’indomani dell’elezione di Trump: le considerazioni fatte allora restano ancora valide e, se possibile, destano ancora più preoccupazione.

Il biondo tycoon si è insediato in un momento di grande euforia dei mercati USA e di crescita sostenuta, con disoccupazione praticamente inesistente e sviluppo continuo del reddito.

Oggi, dopo circa 9 mesi, il sistema appare – nonostante Trump, verrebbe da dire - ancora tonico, ma i mercati finanziari stanno segnando il passo. Il cambio del dollaro rispetto all’euro ha perso oltre il 15% dall’inizio dell’anno: da 1,04 di allora a 1,20 di oggi e la Fed (Federal Reserve System, ovvero la Banca centrale statunitense) non può rinviare oltre un aumento di tassi che potrebbe insidiare il buon andamento dell’economia.

Per la verità molte delle idee alla base del programma elettorale di Trump si presentavano, in teoria, favorevoli ad un consolidamento della crescita e al rafforzamento del dollaro: questo è il motivo della consistente apertura di credito che i mercati hanno concesso al “biglietto verde” a inizio anno. Pensiamo alla riduzione delle tasse, al sostegno all’industria nazionale, alle infrastrutture promesse, alle maggiori spese per la difesa pur connesse al disimpegno in Europa e nella Nato.

Il problema è che praticamente nessuno dei punti programmatici del Presidente è stato finora realizzato: sia perché egli non dispone di una solida maggioranza al Congresso e molte delle sue proposte sono state respinte, sia perché quelle più qualificanti – prima fra tutte l’attesa riforma fiscale – non sono state ancora poste all’ordine del giorno.

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Trump si è presentato agli elettori come sostanziale “elemento di rottura” con l’establishment politico e istituzionale: se questo da un lato gli ha portato consensi e popolarità, dall’altro lo ha posto ai margini del sistema parlamentare e dai suoi meccanismi tecnici e procedurali. Un po’ come successe in Italia con il primo governo Berlusconi, che spesso rimase impantanato e vittima delle “vecchie volpi” di Montecitorio e Palazzo Madama.

Dunque il successo politico si costruisce anche sapendo nuotare nel mare dei regolamenti e delle procedure.  E Trump lo ha sperimentato vedendosi respingere per ben due volte la proposta di legge che aboliva la riforma sanitaria del predecessore, la cosiddetta Obamacare.

In questa carenza di effectiveness, sicuramente un ruolo importante l’ha giocato la difficoltà di costruire una stabile, efficiente ed affidabile squadra di governo: licenziamenti lampo e azzeramento di deleghe si sono succeduti a un ritmo fino ad ora sconosciuto.

Per tutto questo pare proprio che la “luna di miele” del nuovo Presidente con i mercati sia giunta al termine e che l’opinione pubblica, non solo americana, non sia più disposta a rinnovargli credito e fiducia. Trump ha assoluto bisogno di segnare qualche punto a suo favore, per recuperare e rafforzare una credibilità di cui il Paese non può fare a meno sui mercati.

Il dollaro infatti non è una valuta come tutte le altre. Storicamente ha svolto, e continua a svolgere, una funzione di riserva di valore e quasi di bene-rifugio. Questo ha consentito agli Stati Uniti di coprire con relativa facilità il fabbisogno finanziario originato dal disavanzo pubblico.

Il meccanismo è semplice: se il bilancio pubblico presenta un aumento del disavanzo, le autorità statunitensi lo coprono semplicemente stampando dollari.  Fino a che sceicchi e mandarini si fidano del dollaro, di fatto coi loro investimenti in dollari finanziano il deficit USA. Ma se smettono di comprare il biglietto verde, il gioco non può durare. L’aumento dei tassi del dollaro, che come si diceva è già ampiamente previsto, è solo la prima misura, necessaria ma certamente non sufficiente se il trend dovesse continuare.

Ora, come si è visto, la credibilità americana è fortemente minata dagli errori e dal pressappochismo del suo Presidente, accentuati in questa fase storica dalla crisi coreana e dalla minaccia di guerra nucleare rappresentata dal tiranno di Kim Jong-un.

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Semplificando ed estremizzando, la situazione può essere riepilogata così: ci si aspetta che la politica economica del governo federale produca un maggior disavanzo del bilancio pubblico; per poterlo coprire è necessario che gli investitori acquistino i Treasury Bonds (Buoni del Tesoro) emessi dal governo americano; tuttavia, affinché ciò avvenga, il dollaro deve continuare ad essere considerato forte e affidabile e il suo tasso di interesse deve aumentare.

Ma se i tassi aumentano troppo, l’economia rischia di rallentare il suo trend di sviluppo e, al limite, anche di entrare in recessione perché i consumatori avranno più difficoltà a indebitarsi per i loro acquisti e le imprese dovranno rivedere i loro programmi di investimento. Inoltre, se il prodotto interno lordo smette di crescere o si contrae, il bilancio pubblico peggiora ulteriormente perché, diminuendo il reddito, anche le imposte dirette sul reddito e quelle indirette sui consumi daranno minor gettito.

Toccherebbe allora sconfessare il programma elettorale, ovvero aumentare le tasse e diminuire le spese pubbliche, comprese quelle per le infrastrutture e la difesa. La credibilità del Governo federale ne risulterebbe ulteriormente compromessa e il dollaro diminuirebbe ancora il suo valore sui mercati valutari.

Se un certo livello di debolezza della valuta è utile e gradito ai produttori interni e agli esportatori, certamente il declino del dollaro creerebbe, a lungo andare, un situazione molto difficile da governare.

Cosa succederà dunque al dollaro? Prima di rispondere alla domanda delle cento pistole, dobbiamo però esaminare alcune altre faccende che vedremo nelle prossime settimane.

E chi ha dollari in portafoglio cosa deve fare? Il buon senso direbbe: certamente non vendere ora.

 

 

 

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