Gli investimenti alternativi

Gli investimenti alternativi

Mar, 06/12/2018 - 08:58
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Un attento lettore di questo blog ci ha chiesto di completare l’esame degli “investimenti alternativi”, dopo che nei precedenti articoli avevamo parlato di derivati e, in particolare nell’ultimo della serie, delle commodities, ovvero delle materie prime.

L’argomento è interessante e non solo da un punto di vista puramente teorico, ma soprattutto per le concrete implicazioni in termini di scelta degli investimenti. In un momento in cui i mercati presentano grande volatilità, ovvero subiscono frequenti e profonde oscillazioni di prezzi, e soprattutto in queste settimane in cui i rendimenti dei titoli obbligazionari e delle altre forme più diffuse di investimento sono molto bassi, pensare a qualcosa di diverso è naturale.

 

Esiste infatti una categoria di attività finanziarie, ovvero di strumenti in cui può essere impiegato il risparmio, che è in effetti “residuale”, ovvero comprende titoli di varia natura, diversificati per caratteristiche, tipologie di emittenti, livello di rischio: sono i cosiddetti “investimenti alternativi”.

Si tratta di attività decisamente eterogenee, il cui elemento comune è di non essere molto diffusi fra il grande pubblico dei risparmiatori e, pertanto, di essere in qualche modo “di nicchia” e tendenzialmente adatti a chi possiede un livello di conoscenze e preparazione più elevato della media o a chi comunque è disposto a studiare e approfondire la materia. Non perché siano necessariamente strumenti più rischiosi, ma spesso solo più sofisticati o meno conosciuti, che però possono essere utili per diversificare un portafoglio e spesso dare un contributo interessante alla redditività.

Nei portafogli modello, il peso degli investimenti alternativi è del resto venuto via via crescendo, spesso anche in seguito a mode più o meno passeggere. Ciò non vuol dire che essi siano in assoluto da respingere, ma il consiglio è di fare un’attenta selezione e, soprattutto, di avere una cognizione precisa del rischio e delle limitazioni che tali investimenti comportano.

Delle commodities abbiamo parlato nell’articolo della scorsa settimana, oggi ci occupiamo invece di preziosi; nelle prossime settimane affronteremo invece il forex trading, i fondi hedge e la private equity, oscure e minacciose espressioni nella lingua di Albione di cui non vogliamo anticipare il significato per non guastare la sorpresa del lettore.

Non tratteremo invece, per precisa scelta, di un comparto che negli ultimi due anni ha conosciuto una popolarità enorme, quello delle criptovalute.

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Resistendo alle molte richieste che ci sono pervenute, confessiamo di non conoscere in modo sufficiente questo strumento. Tuttavia, il costante tambureggiamento sulla rete e le sollecitazioni ad investire di cui tutti sono oggetto con grande insistenza, ne fanno a nostro avviso un motivo sufficiente per innalzare una barriera di sana diffidenza. Troppe “stangate” (parafrasando il titolo di un celebre film degli anni ’80) abbiamo visto passare, per poter suggerire ai lettori di trasferire risorse a siti web per i quali non disponiamo di elementi di giudizio, col rischio concreto di non poter poi smobilizzare l’investimento e di rientrare in possesso, prima o poi, del denaro.

Ci siamo spesso chiesti infatti cosa succederebbe se una mattina, collegandoci al sito che gestisce l’investimento, lo trovassimo oscurato o non più raggiungibile o, semplicemente, non più esistente. E anche se disponiamo di una chiavetta con tutte le informazioni necessarie a identificare l’investimento, non riusciamo a capire dove potremmo andare per recuperare quanto in precedenza versato.

In altri termini, pur consapevoli del rischio di precludersi una buona possibilità di reddito, riteniamo necessaria una maggiore tutela legale e una concreta vigilanza istituzionale prima di avventurarsi, sia pure con somme minime, in questa strada. Probabilmente ci arriveremo, ma a quel punto i rendimenti saranno certamente meno allettanti e più allineati al resto dei mercati.

Iniziamo dunque a parlare dell’investimento in preziosi.

La prima e più tradizionale forma di investimento è quella in beni preziosi, tipicamente oro e diamanti, ma in questa categoria possiamo far rientrare anche le opere d’arte, i gioielli, gli oggetti da collezione di valore.

Si tratta di forme di impiego che hanno una duplice caratteristica economica: da un lato mantengono il loro valore nel tempo a prescindere da inflazione, svalutazione, default di Stati sovrani e simili; dall’altro non producono interessi né, in generale, alcun flusso di reddito.

Si tratta quindi di un tipico impiego in “riserva di valore”, di natura essenzialmente difensiva, ovvero mirata a mantenere intatto il potere d’acquisto del proprio patrimonio rispetto a eventi esterni che potrebbero comprometterlo.

D’altra parte, anche per i preziosi, come per qualunque altro strumento negoziabile, esiste un mercato in cui vengono scambiati o, per meglio dire, esistono tanti mercati quante sono le tipologie di beni. Tali mercati sono soggetti alla consueta legge della domanda e dell’offerta, in relazione alla quale quando la prima aumenta e/o la seconda diminuisce, il prezzo inevitabilmente cresce. E la domanda tipicamente cresce quando si diffonde il timore di eventi che possano pregiudicare il potere d’acquisto della moneta.

In tali circostanze, o anche in concomitanza con una rarefazione dell’offerta, il valore della riserva accumulata in preziosi sarà superiore al costo originario, dando luogo a una potenziale plusvalenza. In questo caso però, rivendendo il bene, torneremo in possesso di denaro e ci troveremo esposti al rischio di svalutazione incombente, anche se avremo costituito una riserva di maggior valore per assorbire eventuali future perdite.

Un esempio numerico aiuterà a capire questo punto. Supponiamo di acquistare oggi un lingotto da 3 kg di oro al prezzo di 35 € al grammo, per un investimento iniziale di € 105.000. Supponiamo che a distanza di un anno si sia verificata un’inflazione del 10% e che il prezzo dell’oro sia passato da 35 a 50 € al grammo. Dopo un anno il nostro investimento potrà quindi essere smobilizzato a € 150.000, che però – in seguito all’inflazione – avranno un potere d’acquisto corrispondente a € 135.000 di un anno prima.

In tal caso, se vendiamo il lingotto e portiamo a casa la plusvalenza, ci troveremo in mano di nuovo Euro che saranno soggetti a possibile nuova svalutazione: avremo però costituito una riserva di 30.000 € che può costituire un buon argine di sicurezza per mantenere il valore reale del patrimonio in caso di nuova ulteriore svalutazione.

Al contrario, se manteniamo l’investimento in forma aurea, il rischio è quello che il prezzo dell’oro si riduca, perché magari i tassi di interesse aumentano e vengono preferiti dagli investitori forme di impiego più remunerative; oppure perché vengono scoperti nuovi giacimenti che aumentano l’offerta sul mercato.

Anche in questo caso, l’investimento non è quindi privo di rischio, come in generale qualunque altra forma: dunque nessun pasto è gratis, secondo una celebre massima economica di Milton Friedman.

Per molti aspetti l’investimento in oro è simile a quello in commodities di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente, ma in quel caso facevamo riferimento al trading di derivati sulle materie prime e non alla detenzione fisica del bene acquistato. Inoltre, come abbiamo più volte segnalato, analoghi risultati dell’investimento fisico possono essere conseguiti investendo in titoli azionari o in indici direttamente correlati al prezzo dell’oro.