IL FISCO CATTIVO

IL FISCO CATTIVO

Mer, 04/21/2021 - 22:30
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Il cancro è l’evasione, ma non mancano forme di vessazione, anche contrarie alla Costituzione

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Siamo talmente abituati a pagare le tasse e a farci vessare dal fisco, che neanche ci diamo la briga di capire cosa stiamo pagando e soprattutto perché (il cosiddetto presupposto impositivo, ossia l’evento che origina il debito fiscale). Quasi ogni azione che compiamo, anche la più elementare, comporta il pagamento di imposte a vario titolo e di varia entità: accendere la luce, guardare la televisione, fare rifornimento alla macchina, leggere un giornale e così via. Anzi, spesso ci stupiamo che esista ancora qualcosa tax-free, come fare una passeggiata o respirare, ma temiamo che durerà poco.

Può essere allora utile fermarci un attimo a riflettere sul sistema tributario, perché se è vero (ed è vero) che il cancro della nostra economia è l’evasione fiscale, altrettanto negativa è la sensazione di essere ingiustamente vessati, con un accanimento motivato dalla mera esigenza di “fare cassa”. Nessuno mette in dubbio che i servizi pubblici costino, che una serie di funzioni possa e debba essere svolta solo dallo Stato (in primis sanità e scuola) e che, quindi, occorra in qualche modo finanziare questa macchina gigantesca che è la Pubblica Amministrazione.

Magari preferiremmo spesso avere maggiore efficienza e minori sprechi, ma questo è un altro discorso. In realtà, talvolta sono proprio le leggi fiscali a essere sbagliate, nonostante che sul punto la nostra Costituzione sia di una chiarezza totale. La stessa numerosità di imposte, tasse e balzelli è una distorsione e un costo supplementare imposto ai contribuenti: basterebbero una imposta diretta, una indiretta e una tassa per ogni servizio. Tutto quello che eccede serve solo a mantenere un esercito di burocrati che amministrano, riscuotono e controllano.

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E’ chiaramente una provocazione, ma serve a riflettere. Proviamo a partire dalle basi, ovvero dalla Costituzione. I principi sono molto semplici, in poche righe di un articolo, il n. 53:

“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

Il criterio di progressività del secondo comma è quello che prevede un’imposta il cui peso aumenta al crescere del reddito. Il motivo è evidente: per chi guadagna poco una data percentuale (detta aliquota) di imposte da pagare è comunque molto più pesante rispetto a chi guadagna molto[1].

Da queste chiare e illuminate parole, discendono i tre cardini sopra menzionati: l’imposizione diretta progressiva sul reddito; quella indiretta sui consumi; le tasse quale compartecipazione al servizio che si richiede. Il resto non è previsto, quindi – ad esempio – sono illegittime forme di imposizione non sul reddito ma sul patrimonio; né tipologie che non siano progressive; né tasse che eccedano il costo del servizio di cui si tratta.

Per essere ancora più chiari: non solo non è possibile introdurre la cosiddetta “imposta patrimoniale” nel nostro sistema (non tasserebbe il reddito ma il patrimonio, che di per sé non dà capacità contributiva), né la flat tax con aliquota unica (che non sarebbe progressiva ma regressiva), né tasse che facciano pagare un importo superiore al costo del servizio a fronte del quale sono poste.

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Eppure sappiamo bene che in passato forme di imposizione incostituzionale ce ne sono state e, non a caso, sono state (e sono) quelle più odiate. Ad esempio il prelievo forzoso sui conti correnti del 1992, imposto una tantum (e meno male) dall’allora Governo Amato; oppure l’IMU, vera e propria patrimoniale sugli immobili ancora oggi in vigore con esclusione solo della prima casa; o ancora la cosiddetta “Tobin tax” sulle transazioni finanziarie[2].

Non interessano qui, e nella sostanza, le argomentazioni in giuridichese miranti a dimostrare che non si tratta di imposte patrimoniali ma di qualcos’altro o che il criterio della capacità contributiva è compatibile con un’imposta patrimoniale. Sappiamo che i bravi giuristi riescono a spiegare tutto e il contrario di tutto. Ma i contribuenti sanno bene che di vere e proprie vessazioni si tratta, la cui unica reale motivazione è fare cassa, come accade per le finanze comunali con le multe grazie agli autovelox nascosti.

Lo stesso per quanto riguarda le tasse, che al contrario delle imposte sono compartecipazioni che gravano sugli utenti dei servizi pubblici. Se il servizio in questione costa 10 milioni e l’ente impositore ne incassa 12 o 13 a titolo di tasse a carico degli utenti, siamo di fronte a un chiaro abuso.

Se un servizio pubblico – e ribadiamo che non stiamo parlando di scuola o sanità, che devono a nostro avviso essere prestati a tutti e gratuitamente, dovendosi coprire con l’imposizione ordinaria – ha un costo spropositato perché copre assunzioni inutili o sprechi, le tasse a carico degli utenti in realtà non vanno a pagare parte di quel servizio, ma a foraggiare quelle assunzioni o quegli sprechi.

E’ il caso delle tasse sulla nettezza urbana, oggi TARI. In ogni paese sviluppato, l’attività di smaltimento dei rifiuti solidi urbani è un’attività che genera profitto, tanto che i concessionari (coloro che acquisiscono il diritto a svolgerla) devono pagare lo Stato per essere autorizzati. Essi guadagnano poi con i prodotti del riciclo (che oggi coprono una vasta gamma di categorie merceologiche) e con l’energia che i processi generano, al netto dell’ammortamento necessario per finanziare gli impianti di smaltimento, per lo più forniti dagli stessi enti pubblici.

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Da noi il servizio si paga, e si paga salato. Non solo: fasi sempre maggiori della raccolta (la differenziazione, il confezionamento, l’accumulo nei punti di raccolta) vengono lasciate agli utenti, i quali così si sobbarcano una riduzione reale del servizio e un aumento delle tariffe. E se non differenziano bene, si prendono pure le multe.

Il nostro è il paese che anni fa, per risolvere il problema dell’invasione di rifiuti a Napoli, non esitò a pagare aziende di smaltimento olandesi perché gestissero i treni pieni di nostri rifiuti. Una manna dal cielo per quelle aziende, abituate a pagare i rifiuti che costituiscono la loro materia prima.

Per questo, pur apprezzando l’attività di differenziazione e di riciclo dei rifiuti solidi urbani per i positivi effetti sull’ambiente, siamo fortemente diffidenti dei sistemi imposti dagli enti locali, che rappresentano né più e né meno che trasferimenti di costi a carico degli utenti, con il risultato di essere non il rimborso di parte del costo, ma una autonoma e illegittima fonte di reddito per l’ente impositore, per il quale l’intero processo è (o dovrebbe essere, se gestito con la necessaria perizia) a costo zero.

Trasparenza vorrebbe che il fabbisogno pubblico venisse coperto non con centomila balzelli diversi, ma con le sole tre forme sopra evidenziate: imposte dirette progressive, imposte indirette e tasse sui servizi. Il problema è che, così facendo, verrebbero fuori aliquote stratosferiche e i cittadini si renderebbero conto di quanto costa l’intera macchina della burocrazia: in termini elettorali non sarebbe certo un bel vedere.

 

 

 

[1] Se ad esempio l’aliquota fosse unica per tutti e uguale al 20%, chi ha un reddito di 10.000 € l’anno dovrebbe pagarne 2.000, e chi ha un reddito di 1.000.000 di Euro 200.000: è evidente che per il primo il peso è molto maggiore che per il secondo, pur essendo l’aliquota uguale. Il nostro Costituente ha quindi previsto che l’aliquota debba crescere al crescere del reddito, cosicché il secondo si troverà a dover pagare, mettiamo, il 30% del proprio reddito, ovvero 300.000 €. E’ più o meno così che funziona il nostro sistema IRPEF.

[2] L’imposta sulle transazioni finanziarie, o “Tobin tax” dal nome del suo ideatore, consiste nel tassare il valore nominale di un’operazione finanziaria con aliquota molto bassa, indipendentemente dal risultato ottenuto, sul quale se del caso si pagherà l’imposta sul capital gain. Se ad esempio si acquistano 1.000 azioni di un titolo al prezzo di 20 Euro, il valore nominale dell’operazione sarà 20.000 € e, con l’aliquota dello 0,2%, la banca ci addebiterà immediatamente 40 € di Tobin Tax. Se poi due giorni dopo vendiamo in perdita a 18 Euro le stesse azioni, incassando 18.000 €, pagheremo altri 18 € di Tobin tax, anche se in realtà avremo perso 2.000 €. Per questo nessun paese serio ha introdotto questa imposta che è una vera e propria patrimoniale, e come tale illegittima per il nostro sistema.