LA STRADA PER LILLIPUT
Le aziende piccole sono più flessibili e resistono meglio ai cambiamenti
Delle tantissime specie animali comparse sulla Terra nel corso dei millenni, quelle piccole e piccolissime si sono mantenute e moltiplicate, mentre quelle grandi e grandissime sono quasi del tutto scomparse. Basti pensare ai mostri enormi da Jurassic Park, nessuno dei quali è (fortunatamente) arrivato fino a noi, al contrario di insetti e piccoli organismi che riescono a trasformarsi e adattarsi ai mutamenti ambientali.
In economia sembra valere il contrario, dal momento che c’è una tendenza delle aziende a crescere di dimensioni, consolidarsi, aggregarsi: le due tendenze sembrano in contraddizione, e in parte lo sono, ma conviene vederle un po’ più da vicino, inquadrando questi aspetti nell’attuale momento storico del nostro Paese. L’uscita dallo shock pandemico può infatti essere l’occasione per disegnare un nuovo e più solido modello di sviluppo, grazie alle enormi risorse che – a diverso titolo – si renderanno disponibili nei prossimi anni.
Detto in altri termini: conviere puntare su aziende piccole e medie, che hanno rappresentato la fortuna dell’Italia e la cifra del suo sviluppo economico, oppure sui grandi conglomerati economici che possono garantire anche in tempi brevi lavoro e produzione?
L’idea che ci siamo fatti, e i lettori di questo sito lo sanno bene, è che il futuro del nostro paese sia nei servizi dove è possibile valorizzare le nostre eccellenze e unicità, ovvero il turismo e l’agricoltura, con tutto quello che vi ruota intorno. Si tratta quindi di settori che vedono la presenza nettamente predominante di piccole aziende, talvolta inserite in gruppi di maggiori dimensioni, ma più spesso a livello di microimprese, a carattere familiare o poco più. Il settore del turismo già oggi conta oltre 5 milioni di addetti e rappresenta uno dei più rilevanti del paese in termini di numero di addetti.
Tuttavia i grandi numeri di produzione e reddito, quelli in grado di dare lo shock che innesti la ripresa, non possono che venire dalle grandi imprese, in primo luogo dall’automotive, dalle costruzione e dai[mp1] grandi lavori. Tanto per dare qualche numero (ogni tanto ci vogliono), il settore auto – incluso il suo indotto - produce un Euro ogni 10 di PIL complessivo del paese e da esso proviene il 16% delle entrate fiscali.
Nell’ambito dei lavori pubblici, le opere effettivamente bloccate, secondo un calcolo dell’ANCE (l’Associazione dei Costruttori), sono in tutto 749 per un controvalore di circa 62 miliardi di Euro, l’importo di 3 leggi finanziarie del tempo ordinario. Anche solo far ripartire questi cantieri, possibile con le risorse che si renderanno disponibili con i fondi UE, consentirà di creare circa 962.000 nuovi posti di lavoro, ben 217 miliardi di Euro come ricaduta sull’economia e recuperare una gran parte del gap produttivo causato dal coronavirus.
Inoltre, l’occasione dei fondi pubblici disponibili può essere utilmente colta per migliorare le infrastrutture di comunicazione del Paese, in primo luogo la connettività alla rete Internet che in tempo di lockdown ha mostrato tutte le sue carenze. Si potrà così porre mano alla fornitura a largo raggio della fibra ottica, come pure alla messa a punto della rete 5G per la telefonia, che presumibilmente sarà una delle chiavi dello sviluppo futuro anche in ottica competitiva con gli altri mercati.
La spinta alla ripresa non potrà quindi che avvenire attraverso la grande industria, la manifattura, i lavori pubblici e l’infrastrutturazione. Ma fino a questo punto saremo ancora al recupero del tempo perduto, alla neutralizzazione dell’effetto Covid: gli esperti prevedono infatti che la curva del reddito abbia la forma di lettera V o U, a seconda della velocità e intensità delle “gamba ascendente” dopo che sarà stato raggiunto il punto di minimo.
Se avremo fatto solo questo, avremo però almeno parzialmente sprecato una grande, irripetibile occasione per ridisegnare il nostro sistema produttivo in modo da valorizzare le eccellenze e competenze distintive. Perché nel futuro prossimo l’Italia non potrà essere competitiva sulla grande manifattura, sulla macroimpresa, ma solo a livello di piccole e medie aziende. Il costo del lavoro tradizionalmente elevato e la dipendenza dall’estero per le materie prime sposteranno il vantaggio concorrenziale a favore delle tigri asiatiche, dei paesi di industrializzazione storica (Germania, Francia, Stati Uniti) e, forse, di alcune zone dell’Africa.
Così torniamo al punto di partenza: piccolo è ancora bello? Per il nostro Paese certamente sì, specie in prospettiva futura. Anche se nell’immediato non potremo che stimolare economia e reddito attraverso iniezioni di risorse ai grandi conglomerati manifatturieri e ai settori “pesanti”, sarà tuttavia necessario investire in formazione e infrastrutture di comunicazione per favorire lo sviluppo delle piccole e medie imprese specie nei comparti del turismo e dell’agroindustria.
Torneremo in argomento la prossima settimana parlando dei punti di forza delle PMI (piccole e medie imprese) rispetto ai giganti dell’industria e vedremo come – a differenza di quello che potrebbe sembrare – i piccoli organismi hanno maggiore capacità di resistere nel tempo, proprio come nel caso degli animali di cui parlavamo all’inizio.
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