RESISTERE RESISTERE RESISTERE
Il blocco dei licenziamenti: una misura assistenziale che non aiuta l’economia a riprendersi
Un po’ come quando si va in bicicletta: per non cadere è necessario pedalare, muoversi. Se ci si ferma, bisogna mettere i piedi per terra, altrimenti si cade. Lo stesso per quanto riguarda le aziende: chi si ferma è perduto. Con la devastante crisi provocata dalla pandemia, quasi tutto il sistema economico è stato bloccato e ovviamente le aziende non erano in condizione di produrre né tanto meno di vendere.
Si trattava di una situazione palesemente eccezionale, ed era giusto e corretto prendere misure eccezionali, a condizione però che fossero temporanee e che poi consentissero il ritorno alla normalità dopo una parentesi più o meno lunga. Come un fermo immagine, un ibernamento o – come va di moda ora – un flash mob. Ma se dopo aver azionato il pause non si riesce a ripristinare il play, evidentemente c’è un problema. Allora siamo di fronte alla paralisi, allo stato vegetativo, all’incapacità di una vita autonoma senza sostegni.
Intendiamoci, anche questo può avere una sua ragion d’essere: molti lavori (è esperienza comune) servono perlopiù a chi li svolge, soprattutto nel campo della pubblica amministrazione dove spesso l’abnorme burocrazia è originata proprio dalla necessità di giustificare posti di lavoro e poltrone.
E inoltre noto che, secondo l’impostazione keynesiana (che peraltro contribuì a sconfiggere la grande crisi del 1929), anche pagare delle persone perché scavino buche nel terreno e poi le ricoprano contribuisce a far crescere produzione e reddito.
Ma - e qui sta il punto – non si tratta più di lavoro e produzione, bensì di assistenza. E soprattutto bisogna avere ben chiaro come si finanziano queste misure di sostegno. E le strade sono tipicamente due: l’aumento delle imposte (o la diminuzione di altre spese pubbliche) oppure l’indebitamento. Nessun pasto è gratis e, alla fine, le risorse per mantenere i posti di lavoro improduttivi da qualche parte devono uscire. E, ora come ora, possono provenire solo dall’aumento del debito pubblico, attraverso il meccanismo dell’emissione dei titoli di stato che la banca centrale acquista sul mercato riversando sul sistema il fiume di denaro che vediamo di questi tempi.
Nel nostro paese il blocco dei licenziamenti è rimasto in vigore ininterrottamente dal febbraio 2020 alla fine di giugno del 2021; nessun altro paese ha mantenuto per così tanto tempo questa misura di sostegno. Questo perché a un certo punto tutti quanti, a partire da Cina e Stati Uniti, hanno decisamente intrapreso la strada della ripresa economica, in alcuni casi riuscendo a superare i livelli di produzione e reddito ante-pandemia. E pur non essendo automatica la crescita dell’occupazione quando il PIL cresce, la creazione dei nuovi posti di lavoro è proseguita a un ritmo molto sostenuto.
In sostanza, anziché puntare - come ha fatto l’Italia - sul sostegno ai posti lavoro attraverso il blocco dei licenziamenti, si è lasciato libero il mercato di ricercare un nuovo equilibrio. E dopo una prima fase in cui la disoccupazione aumentava molto più che da noi, i posti di lavoro sono tornati a crescere.
Non è solo una questione quantitativa, ma anche di tipologia di posti di lavoro conservati con misure di sostegno o creati. Quelli “sovvenzionati” hanno un costo che ricade sulla collettività (o meglio sulle generazioni future), mentre quelli “di mercato” vengono finanziati dalla vendita dei prodotti realizzati col lavoro stesso.
Diverso il discorso per l’impiego pubblico, che normalmente non ha una componente produttiva e di mercato. L’impiego pubblico serve per fornire servizi alla collettività e, una volta deciso quali siano i servizi da prestare, il problema è solo quello di realizzare un adeguato livello di produttività.
La situazione è di tutta evidenza nel settore aereo, la cui insostenibilità economica è precedente alla crisi pandemica e sicuramente le sopravvivrà. Il mercato non ha bisogno - ovvero non è disposto a pagare - del numero di dipendenti in servizio ai livelli salariali esistenti. Cioè non si riesce a fatturare quello che serve per coprire il costo del personale.
Si può discutere se questo sia dovuto al numero eccessivo di dipendenti, ai salari troppo elevati, alla loro ridotta produttività, ai prezzi che – con la concorrenza dei vettori low-cost – si mantengono troppo bassi. Resta il fatto che la situazione attuale non è autonomamente in equilibrio e che, senza elargizioni pubbliche, non è sostenibile. E’ un problema antico, di non facile soluzione: da un lato ci sono le ragioni del bilancio dello Stato e dei vincoli di origine comunitaria; dall’altro quelle dei lavoratori e, se vogliamo, anche quelle di mantenere in vita un servizio di trasporto prestato da un ente pubblico e non da aziende private. In realtà quest’ultima ragione è più debole delle altre: ciò che interessa ai cittadini dovrebbe essere che il servizio sia disponibile, efficiente e a costi corretti; molto meno che a fornirlo sia un ente pubblico nazionale. Fu questa la grande lezione di Margareth Thatcher, che non esitò a privatizzare i servizi pubblici affidandoli anche a stranieri, come pure a favorire la vendita, sempre a stranieri, dei grossi complessi industriali britannici.
In molti paesi, per gli stessi motivi, le compagnie di bandiera sono state fatte fallire e il mercato si è poi riorganizzato, con il subentro di privati oppure di compagnie estere. A ben vedere, il problema è fra categorie di cittadini: per molti anni sono stati privilegiati i lavoratori (con prezzi alti e/o sovvenzioni pubbliche); ora tendono a essere i consumatori a dettare legge. È la stessa dinamica che abbiamo descritto con riferimento al “caso Walmart”.[1]
Fino a quando potranno resistere, arroccati in difesa del posto, coloro che sono fuori mercato? O – in altri termini – per quanto ancora la loro categoria continuerà a prevalere su quella dei contribuenti o dei consumatori?
[1] Si veda il nostro articolo del 24/10/2017 “La lotta di classe fra operai e consumatori: Il caso Walmart”
- Per commentare o rispondere, Accedi o registrati