QUEL CHE CE VO’ CE VO’
La versione all’amatriciana del whatever it takes
Forse non abbiamo fatto niente per meritarci Draghi, certo è che se perdiamo questa occasione, una prossima potrebbe non esserci. Se per quanto riguarda il metodo ci troviamo ad una versione all’amatriciana del whatever it takes ormai entrato nella leggenda, una sorta di quel che ce vo’ ce vo’, dal punto di vista sostanziale è invece una storica opportunità. O dentro o fuori, come disse Marcello Lippi alla vigilia dei quarti di finale del campionato del mondo.
Che questo avvenga proprio nel mezzo della più devastante pandemia che questa generazione abbia conosciuto, pare proprio la concretizzazione – storicamente non sconosciuta a queste latitudini – del principio cinese del wei ji: ad ogni situazione di crisi o pericolo corrisponde un’opportunità:
L’ideogramma in mandarino è composto di due parti: wēi (危) significa approssimativamente "pericolo, pericoloso; mettere in pericolo, rappresentare un pericolo; periglioso; precipitoso, precario; alto; paura, timoroso" jī (机) nell’interpretazione più diffusa significa "opportunità".
E’ proprio nei momenti più difficili che riusciamo a trovare energia, creatività e dinamismo che non solo ci fanno superare la crisi, ma spesso ci portano direttamente in testa alla classifica, come già successe nel primo e nel secondo dopoguerra del secolo scorso. E così la pandemia può veramente diventare la levatrice di una nuova fase storica, un vero e proprio rinascimento.
Solo che, per questo, abbiamo dato fondo a tutte le risorse disponibili e ci stiamo indebitando – grazie all’Unione Europea – a livelli inimmaginabili solo pochi anni fa, quando prevalevano i “paesi frugali”, l’austerità e i parametri di Maastricht.
Per questo non avremo una seconda chance: se non riusciremo a recuperare sviluppo e produttività, altri debiti non potremo farne, e anzi dovremo cominciare a rimborsare quelli già fatti a carico delle generazioni future.
Grazie al momentum generato dalla pandemia, ci troveremo infatti a disporre, oltre che dei 69 miliardi di Euro di contributi a fondo perduto per il periodo 2021-2026, anche dei 13 miliardi di sussidio e dei 150 presi a prestito, per un totale di 235 miliardi di Euro. Una cifra enorme, mai avuta in passato e di sicuro irripetibile. Circa 4.000 a testa, compresi neonati e vegliardi: fondamentale spenderli bene, o meglio investirli, in modo che a loro volta generino nuove risorse. In questo senso Draghi ha parlato di “spesa pubblica buona”, da contrapporre a quella improduttiva.
I precedenti non sono tutti splendidi, soprattutto per quanto riguarda i fondi indirizzati al Sud, che a questo giro avrà circa il 40% del totale. Ma è una partita che merita senz’altro di essere giocata, e che potrà collocare il nostro paese stabilmente sulla via della ripresa.
Affinché questo accada, è necessario porre mano alle riforme, sia perché sono un pre-requisito per ottenere i fondi, sia perché consentiranno alla spesa di essere produttiva. I versanti su cui siamo impegnati sono essenzialmente tre: quello della giustizia (non può esistere uno stato efficiente e moderno senza un sistema giudiziario che funziona); quello dell’infrastrutturazione (i trasporti e le comunicazioni, inclusa la transizione digitale) e quello della pubblica amministrazione, a prima vista il più complicato.
Per questi obiettivi, il premier si sta spendendo in prima persona, come dimostra la pressione posta sulla progetto di legge di riforma della giustizia, non solo nell’ambito del Consiglio dei Ministri, ma anche – e soprattutto – per agevolarne l’iter parlamentare: la Camera ha già approvato il disegno di legge governativo (anche perché vi è stata posta la fiducia) e il Senato, salvo sorprese, dovrebbe farlo alla ripresa dei lavori post agostana.
Naturalmente è ancora presto, e del tutto improprio, per santificare Super Mario, anche perché è ancora troppo presto per vedere fatti concreti, e dall'Europa solo in questi giorni è arrivato il primo bonifico. E’ però indubbio che, almeno nel metodo, è stata impressa una modalità operativa del tutto inedita: per dire, il Governo parla ora tendenzialmente poco e ad un’unica voce. Se non sparite, sono fortemente ridimensionate le esternazioni sui social media, siamo finalmente tornati alla comunicazione istituzionale. Meno parole e più lavoro e, speriamo, più risultati.
Soprattutto si è invertita la forte spinta conservatrice all’austerità e al rigore di bilancio, che ha accompagnato non solo l’Italia in questo ventennio di sostanziale stagnazione, culminata con la crisi del 2007/2008, dalla quale solo da poco ci stavamo riprendendo. Da stabilità e controllo dei conti, il focus è passato al sostegno e allo sviluppo; dal minimo intervento dello Stato alle attuali dosi massicce di mano pubblica nell’economia.
Potremmo dire che con la pandemia, Keynes è stato sorpassato a sinistra e le banche centrali, da gendarmi anti-inflazione sono diventate formidabili fornitori di liquidità abbondante e a basso costo. Tassi di interesse a zero, o sotto zero, per agevolare imprese e famiglie che potrebbero indebitarsi pesantemente e far ripartire l’economia, se le banche - anziché fare finanza e guadagnare col carry-over[1] - tornassero a fare il loro mestiere di prestare denaro. Ammesso e non concesso che ci sia domanda di prestiti bancari, cosa che normalmente accade nelle fasi di sviluppo, rilanciando a sua volta la crescita.
Sarà vera gloria o solo una nuova strada per una stagione di grande inflazione? Ai posteri l’ardua sentenza…
[1] In questo contesto per carry-over si intende la pratica delle banche di impiegare i fondi ottenuti a basso costo dalle banche centrali non per finanziare produttori di beni e servizi o consumatori, con ciò stimolando la produzione, ma per acquistare titoli per lo più pubblici (nel nostro paese i BTP sono quasi interamente detenuti dalle banche) lucrando così la differenza dei tassi senza assumere i rischi tipici dei prestiti all’economia
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