BOMBE E LISTINI

BOMBE E LISTINI

Mer, 10/25/2023 - 09:55
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Tocca tornare a occuparsi di economia di guerra

.economia di guerra

Non avremmo mai immaginato, qualche decennio fa, di doverci occupare ancora di economia di guerra, ma - per la piega che sta prendendo la situazione geo-politica mondiale in questi Anni Venti - è senz’altro utile riepilogare cosa è ragionevole attendersi per l’economia e per i mercati finanziari quando i conflitti assumono un’estensione non più strettamente locale ma globalizzata.

Può sembrare cinico esaminare questi aspetti, che sono decisamente secondari rispetto alla tragedia umana e al disastro di morti, feriti e distruzioni che la guerra porta con sé: in effetti non possiamo mai dimenticare la follia devastante dell’uomo che sembra non poter fare a meno dei conflitti armati, quanto meno una volta passata la generazione che li ha vissuti in prima persona.

.guerra

Tuttavia, quando le guerre coinvolgono strati sempre più estesi di popolazioni, determinano esodi di massa e interessano zone geografiche molto vaste, è importante capire cosa succede nei mercati di beni e servizi – non solo degli Stati direttamente interessati ai conflitti, ma anche di quelli che comunque ad essi sono collegati da rapporti d’affari e commerciali – e in quelli finanziari. In primo luogo, perché le guerre costano, oltre che in vite umane anche in termini di risorse per finanziare armamenti e mantenere gli eserciti; in secondo luogo, perché prima o poi finiscono (speriamo che anche queste finiscano e non si risolvano invece in derive nucleari totali), e allora bisognerà ricostruire, ricominciare a lavorare e a produrre, anziché distruggere, ricchezza e risorse.

Gli aspetti da esaminare sono essenzialmente due: cosa succede alle grandezze economiche tradizionali (prodotto interno lordo, risparmio, investimenti, mercato del lavoro) e cosa succede sui mercati finanziari. Aspetti che sono ovviamente interconnessi e correlati, come vedremo.

In tempo di guerra, la produzione e il reddito nazionale tendenzialmente crescono, trascinate dal forte aumento della spesa pubblica necessaria a finanziare lo sforzo bellico: in primo luogo armamenti e munizioni, ma anche i consumi per la logistica degli eserciti, nei quali cresce in misura esponenziale il numero dei coscritti. La produzione industriale tende però a divenire molto concentrata nel settore difesa, in quanto negli altri settori la domanda diminuisce drasticamente, come pure la forza lavoro impiegata.

.inflazione da costi

Gli scambi commerciali con l’estero si riducono drasticamente: basti pensare a quello che è successo nella guerra Russo-Ucraina dove il flusso di merci fra Russia e resto del mondo (a parte la Cina) si è - forse definitivamente - inaridito. Questo comporta, per i paesi che non producono energia, un aumento dell’inflazione da costi, ulteriormente sostenuta dalla domanda che, come abbiamo visto, cresce per effetto della spesa pubblica.

A sua volta la spesa pubblica provoca l’aumento del debito pubblico, che però proprio grazie all’inflazione vede ridurre il suo valore reale. Sono numerosi nella storia gli esempi di grandi inflazioni post-belliche che hanno contribuito a polverizzare gli enormi debiti pubblici che gli Stati non sarebbero mai stati in grado di rimborsare.

 

Vista così, sembrerebbe che tutto sommato dal punto di vista macroeconomico le cose non andassero così male, ma cambia invece tutto per la vita delle persone, perché i beni di uso comune, inclusi gli alimentari, spariscono dal mercato e diventano introvabili o carissimi, salvo quelli che si riesce a produrre autonomamente all’interno del paese o, meglio ancora, della famiglia, come nel caso di chi lavora in campagna.

Altra forte spinta al PIL viene poi dalla fase di ricostruzione, in cui viene resa disponibile una grande quantità di risorse per riedificare tutto quello che è stato distrutto: case, fabbriche, ponti, strade, aeroporti, ferrovie e così via.

.ricostruzione

Per quanto riguarda i mercati, l’evidenza empirica dimostra che nei casi di guerra le borse vedono aumentare i prezzi delle azioni. Se restringiamo l’esame alla borsa più significativa, quella americana di Wall Street, e alle guerre in cui è stata coinvolta la superpotenza USA, vediamo infatti che la guerra, lungi dal deprimere i listini, in realtà li fa crescere.

L’indice Dow Jones, infatti, durante la Prima guerra mondiale è cresciuto del 21,2%; nella Seconda guerra mondiale del 23%; nella guerra di Corea del 19,6%; nella guerra del Vietnam del 20,5%, nella Seconda guerra del Golfo del 2%. In dettaglio, durante la prima fase dei conflitti gli indici in genere flettono, per poi impennarsi quando si comincia a intravedere, con la fine delle ostilità, il business della ricostruzione che permetterà a molte delle società quotate di conseguire notevoli profitti.

Gli investitori temono essenzialmente le situazioni di incertezza, per cui nelle fasi preliminari, in cui il rischio di destabilizzazioni appare sempre più concreto, la volatilità tende ad esplodere; ma una volta che la guerra sia formalmente e definitivamente iniziata, cominciano a prevalere le considerazioni che facevamo sopra e in borsa tornano gli acquisti, concentrati soprattutto sul settore meccanico della difesa e sulle società che producono armamenti e macchinari militari.

.oil

Oggi la situazione tende a diventare più complessa, se con la guerra aumenta anche l’inflazione (come è successo in Ucraina e anche in Israele per l’impennata subita dai prezzi dei prodotti petroliferi) e questo porta le autorità monetarie a stringere la cinghia della liquidità aumentando i tassi di interesse: in fin dei conti il vero spauracchio per le borse, più che la guerra, è la probabile restrizione monetaria finalizzata a frenare l’inflazione.