BANDIERA BIANCA LA TRIONFERÁ?
La strada indicata dal Pontefice è dolorosa ma è l’unica praticabile se si vuole mettere fine allo scempio.
Sarà perché a noi piacciono le posizioni di minoranza, specie quando attirano critiche pressoché unanimi, sarà che nonostante tutte le parole e le buone intenzioni ancora non si è visto nessuno che abbia mosso i primi passi concreti per la pace (salvo forse il Presidente turco Erdogan, la cui effettiva imparzialità è però tutta da verificare), ma questa volta le parole del Papa hanno veramente posto la prima pietra per l’avvio di un processo che potrebbe effettivamente sbloccare il conflitto fra Russia e Ucraina.
Per pura coincidenza temporale, negli stessi giorni anche il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha pesantemente criticato il premier israeliano Benjamin Bibi Netanyahu per la politica eccessivamente aggressiva nei confronti dei Palestinesi, come reazione alla strage del 7 ottobre. A tale critica lo stesso premier israeliano, in netta difficoltà anche sul fronte politico interno, ha risposto in modo stizzito riaffermando la bontà del suo operato, dichiaratamente finalizzato alla distruzione di Hamas, la formazione palestinese che controlla il territorio di Gaza, teatro del conflitto.
Ovviamente le due situazioni sono molto diverse, ma un importante punto in comune è – oltre alla ferocia degli eventi bellici e il gran numero di vittime anche fra i civili - l’apparente insanabilità dei conflitti, in cui le parti in causa hanno posizioni estreme e inconciliabili, oltre tutto incancrenite da aspetti culturali atavici.
Tornando alle parole del pontefice, l’affermazione “incriminata” riguarda la dignità della bandiera bianca, ovvero l’esortazione all’Ucraina di fare un passo deciso in direzione del negoziato. Ciò significa che dovrebbe abbandonare la richiesta pregiudiziale di riportare la situazione allo status quo ante, ovvero di riacquisire – oltra alla Crimea – anche i territori a maggioranza russofona del Donbass che i Russi hanno conquistato con la guerra. Naturalmente questo non significa riconoscere le ragioni del nemico (che proprio quella richiesta pone a base delle sue condizioni per intavolare un negoziato) né tanto meno dimenticarsi chi è stato l’aggressore e chi la vittima. Significa solo essere capaci di guardare avanti e, con doloroso ma indispensabile pragmatismo, rendersi conto che continuare la guerra perinde ac cadaver non potrà che portare a una tragica conclusione proprio per il popolo vittima del sopruso.
E per quanto ovvio, da qui deve aprirsi un negoziato vero nel quale ognuno rinunci a qualcosa e al termine del quale ci sia l’assoluta certezza del ritiro totale delle truppe russe dal territorio invaso e del non ripetersi in futuro di invasioni del genere.
Mai come in questo caso la realpolitik è necessaria: le sorti della guerra, dopo la fallita controffensiva ucraina, stanno volgendo nettamente a favore dello zar guerrafondaio, che può contare – rispetto al popolo di Kiev ridotto allo stremo - su infinite risorse sia materiali che umane. Putin non può tornare a Mosca senza un minimo risultato tangibile, tanto più in prossimità di elezione, sia pure fasulle e taroccate come saranno quelle russe.
E d’altra parte, la resistenza del popolo aggredito – che in oltre due anni è stata poco meno che eroica – è resa possibile dai cospicui aiuti di armi, tecnologie, risorse finanziarie da parte dell’Europa e degli Stati Uniti. Ma gli alleati si stanno palesemente stancando di convogliare questo fiume di denaro in quello che sta diventando, giorno dopo giorno, sempre più un buco nero.
La bandiera bianca non è quindi una resa, ma un passo deciso per fermare questo strazio, per cessare la carneficina e per mantenere in vita come entità autonomia l’Ucraina. Naturalmente dovranno essere trovati tutti i mezzi di garanzia più idonei ad assicurare il mantenimento delle condizioni negoziate, ma è sicuro che Europa e Stati Uniti saranno molto più favorevoli ad impegnare risorse per salvaguardare una pace negoziata e per agevolare la ricostruzione del substrato socioeconomico che non per finanziare una resistenza che ogni giorno ha sempre meno possibilità di successo.
La situazione di Israele non è poi così tanto diversa. In questo caso lo scempio è stato opera di coloro che ora sono sotto schiaffo, e lo stato di David ha tutto il diritto di difendere la propria esistenza da un nemico che dichiaratamente vuole la sua distruzione. Ma la reazione di Israele è stata obiettivamente eccessiva, ha coinvolto troppi civili inermi e ha ridotto un’intera popolazione all’assoluta carenza di mezzi di sussistenza, che non siano quelli forniti dalle organizzazioni internazionali. Anche come effetto della politica degli scudi umani messa in atto crudelmente da Hamas.
Tuttavia, l’insistenza di Netanyahu sull’obiettivo della totale e definitiva distruzione di Hamas – sebbene giustificata dalla necessità di difendere la propria esistenza, che i palestinesi più estremisti vorrebbero cancellare – aprirà la strada ad altre, infinite stragi di popolazione incolpevole. Non sempre il fine può giustificare i mezzi.
Anche in questo caso, è necessario che la parte più ragionevole (in questo caso l’unico Stato democratico dell’intera area medio orientale) faccia un passo indietro e, invece di riaffermare le proprie giuste ragioni, cerchi di ripristinare un livello di vivibilità minimo nella regione, anche nel proprio interesse: è infatti ovvio che la fornitura di armi e risorse finanziarie dagli Stati Uniti, come ha velatamente fatto capire Biden, non potrà essere infinita.
Non possiamo pretendere di aver esaurito tutti gli aspetti di situazioni complesse e crisi probabilmente insolubili, ma senza uno scatto di realismo e pragmatismo da parte di Stati che hanno subito ingiustificati e feroci attacchi, la guerra continuerà per molto tempo ancora, e produrrà altre incolpevoli vittime sull’altare dell’irragionevolezza.
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