IL CAPITALE ETICO (1)
IL CAPITALE ETICO (1)
Logos, bene comune e interesse generale
Sarebbe bello se la nostra quadrilogia potesse diventare una “pentalogia”, ovvero se dopo il capitale economico, il capitale sociale, il capitale umano e il capitale erotico, anche il capitale etico si potesse includere nel novero.
In questo articolo esaminiamo i fondamenti filosofici e storici del concetto, seppure in estrema sintesi, e la prossima settimana proveremo a fotografare “lo stato dell’arte”.
La sollecitazione è venuta da un attento lettore del blog, Marco Falletti, che in margine agli articoli sul capitale erotico, suggeriva di prendere in considerazione la dimensione etica del concetto di capitale, descrivendolo in questi termini:
Un insieme di correttezza, gentilezza, riservatezza, umiltà, parsimonia di parole, capacità di ascolto. Una sorta di propensione all’altro, di apertura, in netto contrasto con la tendenza alla separazione, alla affermazione di sé, classiche manifestazioni di quel “potere”. Dunque uno strano capitale umano, che porta ad unire, più che a dividere, che ti porta a vedere tali persone come montagne, che però non ti sovrastano, ti accolgono, ti abbracciano.
Proviamo dunque a vedere se è possibile concepire, accanto a quelle ricordate all’inizio, una tipologia etica del capitale.
Per sua natura, la dimensione etica si colloca fra quella intimamente personale, ove sono compresi il capitale umano e quello erotico, e quella sociale, incentrata sui rapporti della persona (che qui esaminiamo come soggetto economico) con l’ambiente che la circonda. “L’uomo è animale politico” (politikòn zôon), diceva Aristotele, e in quanto tale è portato per natura a unirsi ai propri simili per formare delle comunità; ovvero si esprime e agisce in un contesto di altre persone: la famiglia, la polis, lo Stato, in senso ampio il mercato.
Lo stagirita affermava che caratteristica peculiare dell’uomo è di essere provvisto di logos (in greco: λόγος), che deriva dal greco λέγω (légο) e letteralmente significa scegliere, raccontare, enumerare, parlare, pensare. Questa parola è venuta poi nel tempo assumendo un significato sempre più complesso: i corrispondenti termini latini (ratio, oratio) si rifanno con il loro significato di calcolo, discorso a un concetto più esteso di stima, studio (come suffisso), apprezzamento, relazione, legame, proporzione, misura, ragion d'essere, causa, spiegazione, frase, enunciato, definizione, argomento, ragionamento, ragione, disegno (1) .
Attraverso il logos si stabilisce un rapporto e confronto con gli altri uomini, rendendo così naturale organizzarsi in comunità, e quindi dare vita allo Stato, che risponde ai bisogni naturali dell'individuo. Come afferma ancora Aristotele nelle primissime righe del Libro I della “Politica”, ogni Stato è una comunità (koinonia) e ogni comunità si costituisce in vista di un bene (2).
La sequenza logica del pensiero aristotelico su questo punto è pertanto:
RAGIONE → STATO → BENE COMUNE
Da qui, secondo me, conviene partire per verificare l’esistenza del capitale etico. In particolare, dal concetto di bene comune, che è alla base della dottrina cattolica, insieme a quello di solidarietà.
Senza entrare troppo sul terreno religioso, e limitandoci ai soli aspetti economici, possiamo definire il bene comune come uno specifico bene che è condiviso da tutti i membri di una specifica comunità: proprietà collettiva e uso civico. In quanto tale, si differenzia dal bene privato che è invece di proprietà individuale e di uso esclusivo.
Come si vede, in questi termini (interesse generale, proprietà collettiva) la teoria cristiana e quella marxista trovano un formidabile terreno di convergenza.
Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae, scritta intorno al 1270, affermava che la legge non è che una prescrizione della ragione, in ordine al bene comune, affermando che il bene comune è anche il fine comune e che costituendosi la legge innanzitutto per riferimento al bene comune, qualsiasi altro precetto sopra un oggetto particolare non ha ragione di legge sino a quando non si riferisce al bene comune.
Dopo questo excursus filosofico, e per tornare sul terreno dell’attività economica, possiamo quindi stabilire che il profilo etico nasce dalla razionalità dell’uomo (quello che abbiamo definito logos o ratio) ed è orientato a perseguire il bene comune, ovvero l’interesse collettivo: tale interesse si pone su un piano diverso, forse superiore, rispetto a quello privato ed esclusivo.
Per assurdo, senza la dimensione etica o sociale, anche il capitale economico servirebbe a ben poco: è proprio l’attività economica che consente all’individuo di far crescere, valorizzare e godere il proprio capitale. Se un individuo possedesse una grande ricchezza ma si trovasse su un’isola deserta senza poterne uscire, il suo capitale sarebbe del tutto inutile.
Mi è capitato di riflettere sull’etica in economia alla fine degli anni 80, in seguito a un convegno che si tenne a Bologna nell’aprile 1987 (3) e alla pubblicazione dell’enciclica Solicitudo rei socialis, emanata nel 1987 da Giovanni Paolo II, che anticipò solo di qualche anno le vicende di Tangentopoli.
In quella stagione il tema dell’etica (o meglio della sua negazione) si pose con forza al centro del dibattito politico, rendendo evidente che un sistema incentrato su corruzione diffusa, perseguimento ossessivo dell’interesse privato e spregio quasi ostentato dei canoni della più elementare correttezza non avrebbe potuto mai sopravvivere e crescere.
A distanza di quasi un quarto di secolo, bisogna purtroppo constatare che i problemi emersi in quel contesto sono ben lungi dall’essere risolti e che i comportamenti illeciti non sono mai cessati, anzi hanno sempre trovato forme e strumenti nuovi per affermarsi.
Va anche detto che quella fase storica fu caratterizzata da sensazionalismo giustizialista e da manie di protagonismo mediatico da parte dei pubblici ministeri, che in poche occasioni riuscirono a veder confermate in giudizio le accuse.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti ma per certi aspetti sembra che non sia successo niente. Per questo è lecito chiedersi se ha senso parlare di capitale etico e se questo concetto possa essere in qualche modo valorizzato. Lo vedremo nel prossimo articolo.
(1) W. Cavini in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1981, pag. 535
(2) Aristotele, Politica, Libro I, 1252a
(3) “Danaro e coscienza cristiana”, i cui atti sono pubblicati da EDB, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1987
Commenti
Mi sia permessa una riflessione sull’affermazione:
"Per assurdo, senza la dimensione etica o sociale, anche il capitale economico servirebbe a ben poco: è proprio l’attività economica che consente all’individuo di far crescere, valorizzare e godere il proprio capitale. Se un individuo possedesse una grande ricchezza ma si trovasse su un’isola deserta senza poterne uscire, il suo capitale sarebbe del tutto inutile.".
Il fatto di trovarsi su un’isola è un evento abbastanza improbabile, anche nel caso d’isola come metafora.
Nel quotidiano mi sembra abbastanza evidente che – non solo senza etica, ma anche in perfetta amoralità - si possa accumulare un capitale economico e goderne appieno.
Che tale accrescimento sia destinato a cessare e ad autodistruggersi, può essere. Così come siamo certi che l’essere umano cesserà di esistere come conseguenza del suo aver distrutto il pianeta su cui dovrebbe vivere.
Lo sappiamo! Quindi? Striamo tutelando la Terra?
Se una teoria non si realizza in pratica, è sbagliata.
Se si realizza come eccezione, significa che la regola è un’altra.
Questo senza pensare (anzi escludendo categoricamente) che “maggioranza” significhi “bene”, così come “grande quantità” non significa “grande qualità”.
Ultima riflessione di cui mi scuso in partenza: l’etica è una bistecca: può essere vitale per un affamato o del tutto abominevole per un ricco vegano.
- Per commentare o rispondere, Accedi o registrati