EMERGENTI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI!
Il mondo verso una polarizzazione fra G7-Europa da una parte e emergenti dall’altra
Rovesciare l’ordine mondiale costituto era lo scopo dichiarato di Carlo Marx e seguaci che - al grido di “Proletari di tutto il mondo unitevi!” – auspicava una presa di coscienza delle classi lavoratrici le quali, consce della loro forza economica e numerica, avrebbero dovuto instaurare la dittatura del proletariato, sopprimendo la borghesia e il capitalismo.
Qualcosa di simile sembra aggirarsi ora non tanto in Europa, ma nel mondo, ed ha per protagonisti i paesi che una volta si dicevano “in via di sviluppo” e ora più realisticamente “emergenti”, soprattutto in Asia, ma anche in Africa e in America Latina. Viene messa in discussione l’egemonia (più che altro economica) delle superpotenze, e segnatamente degli Stati Uniti. Un po’ fuori bersaglio, ma ugualmente sotto tiro, la Cina di Xi Jinping, che in virtù del suo passato di rivoluzione comunista ha quanto meno in comune con gli emergenti il percorso di liberazione dalle catene della povertà, che viene visto oggi come un modello da imitare.
Da parte sua il Celeste Impero, che pur sta attraversando una prolungata fase di ristagno economico e di crescita molto inferiore a quella a cui eravamo abituati fino alla fine del secolo scorso, sta mettendo apertamente in discussione la supremazia statunitense. Il leader cinese, incontrando a San Francisco il presidente USA Biden, ha infatti affermato che “il mondo è sufficientemente vasto per tutti e due, e che quindi entrambe le potenze possono continuare a crescere nonostante le differenze”. Al di là dell’espressione letterale, il messaggio è che fra i due giganti sarà competizione e lotta senza quartiere per assicurarsi la supremazia mondiale.
Le due potenze sembrano per ora non voler spingere oltre il livello di guardia la competizione: da un lato la crisi in Ucraina è stata gestita da Pechino in modo fino ad ora apparentemente distaccato, senza appoggiare apertamente la Russia ma evitando di isolarla; dall’altro a Taiwan per ora c’è solo un grande movimento di truppe, aerei e navi ai confini, ma i cannoni sono ancora silenziosi.
Ma se guardiamo oltre le schermaglie e la dialettica politica fra i due paesi, gli emergenti si stanno chiaramente organizzando a partire dal nucleo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che rispetto al primo vertice di Ekaterinburg del 2009 (quando all’acronimo si aggiunse la “s” del Sudafrica) hanno ora aggregato anche Egitto, Bangladesh e Emirati Arabi e sono in procinto di allargare l’intesa, dall’inizio dell’anno prossimo, anche a Iran, Arabia Saudita, Argentina ed Etiopia. Non solo: oltre una trentina di altri Stati – fra cui Indonesia e Cuba – si sono candidati a entrare nel circolo.
Si sta in pratica profilando una polarizzazione del mondo fra G7 ed Europa da una parte ed “emergenti” dall’altra, dove le differenze di ricchezza, prodotto interno lordo e condizioni di vita sono ancora profonde, ma il divario si sta velocemente riducendo, trainato dalle dinamiche demografiche e dalla disponibilità di materie prime, petrolio ma non solo.
Nel blocco G7-UE vive poco più di un miliardo di persone; in quello allargato degli emergenti 3,6 miliardi.[1]. Nel 2022 i cinque Brics hanno realizzato il 31,5% del prodotto lordo planetario, ma già l’anno prossimo la formazione allargata si attesterà al 38,5, a fronte del 30,3% dei paesi del G7 (l’Europa, sempre più in declino, si è fermata sotto il 14%).
Gli emergenti dispongono attualmente del 21% delle riserve petrolifere mondiali, ma con l’arrivo di Arabia Saudita, Iran ed Emirati Arabi arriveranno al 41%, dove gli Stati Uniti sono appena al 20%.
Dopo aver creato solo nel 2006 la propria alternativa al Fondo Monetario Internazionale, la cosiddetta “Nuova Banca di Sviluppo”, gli emergenti hanno visto crescere il volume dei finanziamenti erogati a 30 miliardi di dollari e contano di arrivare a 350 miliardi entro il 2030 (il FMI ha attualmente un portafoglio prestiti di 110 miliardi di dollari). Lo scopo dell’istituzione è quello di supportare i paesi in difficoltà senza strozzarli con richieste di riforme considerate sempre più intollerabili.
Il passo successivo, ancora di là da venire, è però il superamento della “dittatura” del dollaro negli scambi e nei movimenti di capitali internazionali. In realtà da questo punto di vista la strada è ancora molto lunga: il dollaro mantiene salda la sua netta predominanza fra le valute di scambio, e anche il tentativo cinese di imporre la sua valuta, il renmimbi, come quella di riferimento, sta incontrando molte difficoltà: attualmente è solo al 2,6% delle riserve valutarie del mondo, mentre il dollaro è usato nel 60% delle transazioni commerciali e nell’89% dei movimenti di capitale.
La “dedollarizzazione” dell’economia mondiale è ancora molto lontana, come pure irta di difficoltà la costituzione di una valuta comune sull’esempio dell’Euro. Una serie di speranze venivano riposte, quando nacquero e si diffusero, nelle criptovalute, prima fra tutte il bitcoin, che sarebbe davvero potuta diventare la nuova valuta di riferimento. Ma la forte valenza speculativa e l’assenza di un sistema di banche centrali, che potesse controllare e supervisionare gli emittenti, ha vanificato questa ipotesi.
Il movimento dei “Brics & Co.” non è da trascurare, perché gli equilibri fra le economie mondiali sono quanto di più instabile e volatile ci possa essere, ma il potere di sua maestà il dollaro non sembra ancora seriamente messo in discussione.
[1] Questo dato, come i seguenti che vengono riportati, sono stati presi dall’articolo “Brics” di Milena Gabanelli e Giuseppe Sartina sul Corriere della Sera del 22/11/2023
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