DEJA VU

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Mar, 07/06/2021 - 14:44
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Verso una nuova stagione di inflazione e petrolio scarso e caro: stanno tornando gli anni ’70?

 

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I prezzi che cominciano a salire e il petrolio che scarseggia, inflazione e carenza di materie prime: dove l’abbiamo già visto? I più attempati dei nostri lettori non faranno fatica a ricordarsi degli anni ‘70 del secolo scorso, caratterizzati, appunto, da un aumento generalizzato, progressivo e consistente del livello dei prezzi e dall’improvvisa penuria (o rincaro, il che è lo stesso) del petrolio.

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Ci stiamo preparando a rivivere quella ormai lontana stagione, con gli eccessi che la caratterizzarono, oppure sono solo coincidenze? Cerchiamo di capire perché, se è vero che nella storia corsi e ricorsi si alternano, è altrettanto vero che il mondo di oggi è molto diverso da quello di mezzo secolo fa. E’ diverso il sistema economico, ma soprattutto è fortemente cambiato il contesto sociale. Gli anni ’70 non torneranno: e questa per molti aspetti è una buona notizia (chi non ricorda gli eccessi di quel tempo che culminarono nella stagione del terrorismo?); per altro verso è invece l’inizio di una stagione nuova, che ci apprestiamo a vivere come una fase inedita, con tutte le incertezze e le incognite del caso.

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Dell’inflazione si è molto parlato in questi mesi, dapprima sottovoce e quasi con incredulità dopo decenni di prezzi stabili se non in calo e di tassi a zero o anche sotto; dell’andamento di prezzi e disponibilità di materie prime invece pochi – a parte chi opera per professione sui mercati delle commodities – si sono accorti. Anzi, fino a ieri il dato visibile era quello del basso prezzo del petrolio, che dopo aver toccato i 120 dollari al barile nel 2013, è sceso fino a 20 nel punto più critico della crisi pandemica (marzo-aprile 2020) per poi risalire fino ai 75 circa di questi giorni.

La ripresa economica, che sta portando il sistema economico dei paesi occidentali fuori dal tunnel del coronavirus, e che in alcuni casi assume caratteristiche di vero e proprio boom, ha innescato un forte aumento della domanda di energia (e di altre materie prime, come i metalli per la produzione di semiconduttori), che ne ha provocato l’impennata dei prezzi.

A questo si aggiunga una (quanto meno apparente) ritrovata concordia nell’ambito dell’OPEC che ha portato, dopo decenni di discussioni e anarchia, i paesi produttori a stabilire e soprattutto rispettare quote prestabilite di offerta, in modo da sostenere ulteriormente il prezzo. Che a sua volta spinge i costi di produzione verso l’alto, amplificando l’effetto inflazione. Sembra proprio un film già visto, ma a ben guardare ci sono molte differenze.

Il petrolio continua ad essere la principale fonte di energia, a parte il nucleare, nonostante i tentativi di diversificare attraverso fonti rinnovabili ed “ecologicamente più corrette”. Ma quando la congiuntura cresce e l’industria, in ogni parte del pianeta, aumenta i propri giri, alla fine è sempre lì che si torna. A dispetto delle mode, la produzione mondiale si nutre di petrolio e così sarà per almeno una generazione, se non due.

Con i bassi prezzi e il livello di domanda stagnante per gli effetti della crisi, le scorte sono state ridotte e questo ha causato la temporanea carenza di materia prima sul mercato. Come sempre succede da che mondo è mondo, l’aumento di domanda ha dapprima innescato il repentino aumento del prezzo, poi nel tempo l’offerta si adegua.

.blackout

La stagionalità, in tutto questo (soprattutto per quanto riguarda gli USA), c’entra un bel po’; nonostante quello che si pensa, il picco di utilizzo di energia c’è in estate, con l’uso dei condizionatori. Il caldo è il principale nemico della vita moderna: pensiamo ai paesi del Medio Oriente con temperature che attualmente sfiorano i 50 gradi e con i pozzi petroliferi che vengono fatti saltare per scopi terroristici.

Fa impressione che il sindaco di New York abbia raccomandato ai suoi concittadini di risparmiare energia elettrica, limitando i condizionatori, e che il governatore dello stato del Texas abbia paventato il ritorno del black-out. Ma siamo molto lontani dagli scenari dell’austerity degli anni ’70, quando da noi venne vietato l’uso delle auto nei fine settimana. Oppure che molti paesi stiano pensando a ripristinare le vecchie centrali a carbone, con grande scorno di verdi e ambientalisti.

.austerity

Ma rispetto a cinquant’anni fa giacimenti e produttività delle centrali sono aumentati molto, non esiste un problema di disponibilità ed effettivamente alcune fonti alternative sono state rese disponibili. Inoltre, e questa è la differenza maggiore, non veniamo da un decennio (quello del boom del dopoguerra) di impetuoso sviluppo economico, ma – al contrario – stiamo uscendo da una crisi violenta (per la pandemia) capitata proprio mentre ci si risollevava da un’altra crisi altrettanto forte e prolungata (quella del 2007/2008).

Non siamo in piena occupazione (almeno qui in Italia), anzi. Inoltre questa volta, veniamo da anni di prezzi e tassi bassi e stabili. C’è ancora un ampio margine di crescita per poter utilizzare i fattori produttivi (in primo luogo lavoro e capitale) senza strozzature sul lato prezzi.

Ma il fattore che fa la differenza sono le banche centrali. Abbiamo imparato (non finiremo mai di ringraziare “Super” Mario per questo) che, in periodi di tensione, occorre che ai sistemi venga lasciata liquidità sufficiente per evitare attriti e strozzature, e nonostante le giuste preoccupazioni per l’inflazione, i programmi di restrizione e di rientro verso la “normalità” siano molto cauti e prudenti.

Forse la migliore lezione che abbiamo appreso dai passati errori è proprio questa: le banche centrali sono diventate strumento di soluzione e non parte del problema.