Cherry Picking Pt.2: le azioni
Terminiamo questa breve guida all’asset allocation parlando della scelta, da effettuare una volta individuata l’entità dei titoli da investire, dei titoli azionari da mettere in portafoglio. Siamo quindi nell’ambito della gestione attiva e ci confrontiamo, ancora una volta, con quella che è stata definita cherry picking ovvero la “raccolta delle ciliegie”: scegliere dal paniere di tutti i titoli presenti sul mercato i due, massimo tre, su cui puntare.
Di tutto il percorso che abbiamo fatto, questa è probabilmente la fase più rischiosa, se abbiamo deciso di non affidarci a strumenti di gestione collettiva quali i fondi azionari oppure agli ETF (di cui abbiamo discusso in precedenza: riportare link dell’articolo).
Le azioni sono infatti tradizionalmente considerate l’asset class più volatile e più instabile, forse anche oltre l’evidenza statistica, che spesso presenta invece titoli obbligazionari dall’andamento anche più ballerino. Ad ogni modo è, anche nel caso delle azioni, necessario affidarsi al supporto di consulenti esperti.
Il primo dato certo da cui partire è che, se abbiamo già deciso di investire in azioni, vuol dire che l’andamento previsto di questo mercato, in generale, è considerato coerente con i nostri obiettivi. Scegliere inoltre in cherry picking uno o più titoli azionari anziché affidarsi a indici o fondi vuol dire puntare su azioni che riteniamo possano avere una performance superiore a quella del settore di riferimento. Questo può avvenire per tre grandi categorie di motivi:
- Perché il settore in cui quella società opera mostrerà una performance migliore degli altri settori;
- Perché quella particolare società mostrerà una performance migliore delle altre società del suo settore;
- Perché quella società sarà interessata da eventi specifici e peculiari che ne faranno aumentare il valore in borsa (la cosiddetta capitalizzazione di mercato o market cap).
Come si vede siamo ancora nel campo delle previsioni e quindi, a meno che non abbiamo poteri divinatori, dell’incertezza. Quello che può fare la differenza è il fatto di poter disporre di informazioni che gli altri non hanno e/o di interpretarle in modo diverso dagli altri. Questo vale in particolare per il terzo punto, dove è necessario accertare innanzitutto che la provenienza delle informazioni non sia illegittima, fatto che integrerebbe gli estremi del reato di insider trading; occorre poi verificare che tali informazioni non siano price sensitive, ovvero destinate a restare riservate, oppure in grado di influenzare il prezzo.
Bisogna fare quindi molta attenzione, ad esempio, all’amico che ci soffia nell’orecchio: “Ho saputo che quella società verrà acquisita tra poco e il suo titolo in borsa salirà molto”. Se la cosa è vera, molto probabilmente è un caso di insider trading; se invece è falsa prenderemo una sonora legnata. A maggior ragione se avessimo rapporti professionali con quella società.
Può però accadere che per una serie di motivi, magari per conoscenza personale della società o dei suoi manager, ci siamo fatti l’idea che in un certo periodo di tempo un particolare settore o una singola società andrà meglio di quanto prevedono gli analisti: in tal caso potremmo “scommettere” su quella società comprandone le azioni. Se la nostra intuizione è confermata dai fatti, quella società farà maggiori profitti e quindi distribuirà più dividendi oppure aumenterà il suo valore. In entrambi i casi il suo corso (prezzo di borsa) aumenterà e, di conseguenza, salirà il valore del nostro patrimonio.
La logica è molto simile, ma non del tutto coincidente, con quella dell’asset allocation tattica: in quel caso infatti movimenteremo il portafoglio per prendere profitto da oscillazioni anche temporanee, non necessariamente collegate al valore dell’azienda. Qui invece siamo ancora dentro un ragionamento strategico ed abbiamo un orizzonte temporale più lungo.
IL TARGET PRICE
A parte giudizi puramente soggettivi e intuizioni personali, è sempre utile, talvolta indispensabile, acquisire le valutazioni di professionisti che per mestiere analizzano bilanci, informazioni e notizie sulle società quotate. Sono i cosiddetti “analisti”, esperti di cui le maggiori banche e società di intermediazione dispongono a vantaggio dei propri clienti e di coloro che li consigliano e guidano nell’acquisto.
Tali valutazioni si fondano, nella maggior parte dei casi, sul meccanismo del “target price”. Sulla base dei dati di cui disponiamo, attraverso modelli e tecniche di riconosciuta validità, si calcola cioè il valore teorico dell’azienda, che normalmente coincide con il totale degli utili che si prevedono in futuro (in genere fino a 20 anni), riportandoli a oggi attraverso un procedimento matematico, detto “attualizzazione”, che passa dalla previsione dei tassi di interesse.
Una volta individuato il valore “teorico” della società e diviso per il numero delle azioni in circolazione, si confronta il valore così ottenuto (cosiddetto “prezzo target”) con il prezzo di borsa: se è superiore, si ritiene che il prezzo debba crescere, adeguandosi al suo valore. In tal caso il suggerimento dell’analista sarà buy, ovvero comprare, e la differenza in percentuale dei due valori il potenziale upside, cioè il guadagno.
Ovviamente sarà al contrario in caso di valore teorico inferiore al corso, con conseguente suggerimento sell (vendere) e potenziale downside (perdita).
Come si vede, gli elementi di incertezza sono molti e, soprattutto, non possono essere calcolate l’imprevedibilità e l’irrazionalità del mercato. Alla base del ragionamento c’è piuttosto l’assunto che il prezzo di borsa di un titolo debba tendere sempre al valore teorico dell’azienda. Questo però accadrebbe solamente se i mercati fossero perfetti e tutti avessero le stesse informazioni, sempre ammettendo naturalmente che le valutazioni degli analisti siano corrette e i dati su cui sono basate totalmente attendibili.
In realtà sappiamo che queste due condizioni non sempre si realizzano. Gli analisti infatti potrebbero avere un interesse a promuovere un certo titolo, perché magari la stessa banca per cui lavorano è esposta con quella società, anche se la normativa imporrebbe l’esistenza di una separazione totale, i cosiddetti “chinese walls” o muri cinesi, fra chi pubblica analisi destinate al mercato e chi fa il vero e proprio lavoro di banca.
Allo stesso modo l’attendibilità dei dati e dei bilanci societari non sempre si verifica, come dimostrano i purtroppo noti casi di manipolazione e falsificazione dei numeri.
Affrontato anche il tema della scelta dei titoli azionari, con il prossimo articolo, nel quale parleremo di fiscalità sugli investimenti e di rendite finanziarie, esauriremo questa serie di contributi finalizzati a dare strumenti ed elementi di giudizio al risparmiatore, che sia la singola famiglia o l’ente non profit, che voglia costruire un portafoglio razionale ed efficiente, evitando per quanto possibile di incorrere in perdite dovute a mancanza di informazioni o competenze.
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