Pillole di Finanza: le aziende che licenziano sono buone aziende?
Fra le tante conseguenze negative che la grande crisi iniziata nel 2007 ha portato, quella sicuramente più devastante è stata una forte riduzione dei posti di lavoro e soprattutto una marcata sfiducia da parte delle aziende a investire sulle risorse umane.
Insieme ai noti vincoli di bilancio che un po’ dappertutto impediscono di fare nuove assunzioni nel settore pubblico, questo ha determinato un crollo verticale dell’occupazione, in particolare quella delle categorie più deboli.
I giovani e i meridionali sono coloro che hanno pagato il tributo più alto, le donne (la cui occupazione è in proporzione diminuita meno di quella dei maschi, ma se ne mantiene di molto superiore) continuano a vedere il lavoro come un miraggio e le ferite profonde subite dal sistema impiegheranno molti anni ad essere rimarginate. A questo si aggiunga l’effetto deleterio delle novità introdotte con la “riforma Fornero” (legge 92/2012) che ha di fatto bloccato il turnover.
Tutte le aziende che si sono trovate in difficoltà finanziaria e di mercato e hanno dovuto intraprendere processi di risanamento, per prima cosa hanno pensato a licenziare. E licenziare sempre i dipendenti, quasi mai mettere in discussione i manager che, quanto meno, non hanno saputo – non che fosse facile – tenere dritto il timone durante la tempesta.
Si sono succeduti piani industriali dei settori più disparati, il cui unico e sicuro elemento in comune era la riduzione dei costi del personale. Quanto più grandi erano (e sono, purtroppo) i numeri degli esuberi e i tagli degli stipendi, tanto più i piani sembravano credibili e apprezzabili dal mercato.
Anche la finanza ne è stata pesantemente travolta, e anzi in genere è stata la prima a partire con gli esodi di massa.
La domanda che un investitore deve porsi è allora: è meglio stare alla larga dalle aziende in difficoltà oppure dare credito ai piani di sviluppo presentati al mercato? Se non si investe non si rischia certo di subire perdite, ma se non si colgono le buone occasioni, perdiamo opportunità di cui potremmo pentirci.
E i business plan migliori sono quelli in cui si licenzia di più e si risparmia di più? Non sempre e non solo, anzi sono propenso a credere che nessuno sviluppo si possa basare principalmente su una riduzione drastica della forza lavoro e della scala dimensionale.
I veri piani di sviluppo sono quelli che conducono alla crescita dell’azienda, e non al suo ridimensionamento. Molto spesso la crisi nasce dal mercato e non dalla produzione. Un’azienda comincia ad andare male se non riesce a vendere i propri prodotti. Se il mercato non funziona, non è recettivo per i prodotti di un’azienda, possiamo avere anche costi uguali a zero ma difficilmente avremo un futuro.
La leva dei costi è ovviamente inevitabile, ma può durare al massimo un anno o due, dopo di che o si recuperano quote di mercato e di fatturato, o si chiude. Gli investitori, dal canto loro, sono disposti a premiare, anche in tempi di crisi, quelle società che riescono a vendere, soprattutto all’estero, e che quindi necessariamente devono invece investire. Basti vedere l’andamento del mercato azionario “star” in Italia, quello delle medie imprese ad alti requisiti, il cui indice FTSE STAR è aumentato nell’ultimo anno del 45%, ed è destinato a crescere ulteriormente.
Se andassimo a vedere i dati dell’occupazione nelle aziende comprese nell’indice o semplicemente quotate allo star, scopriremmo con sorpresa che sono tutte aziende che nell’ultimo anno hanno assunto, e non poco.
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