Di mercanti, valute e altre storie
Di moneta e valute estere abbiamo parlato spesso e oggi può essere interessante tornare in argomento, visto che si parla di super euro, di dollaro debole, di onda lunga della Brexit. Nell’ultima riunione della BCE, è stato deciso di modulare il ritmo degli interventi sul mercato dei titoli anche in considerazione della preoccupante forza dell’euro sui mercati valutari e, quindi, di rallentare il programma di cessazione del quantitative easing (QE, cioàè “alleggerimento quantitativo), annunciata e già avviata.
A questo punto i lettori meno esperti di finanza saranno fortemente tentati di interrompere la lettura, ma vorrei abusare ancora un po’ della loro pazienza per cercare di capire insieme di cosa si tratta e come quanto detto sopra può impattare sulle scelte di investimento dei risparmiatori.
Per farla breve, e a costo di qualche semplificazione che farà storcere la bocca ai più raffinati, la politica monetaria espansiva di QE consiste nell’acquistare, da parte della banca centrale (nel nostro caso europea, la BCE), titoli di stato in modo tale da immettere moneta nel sistema facendone crescere la quantità in circolazione, e quindi la sua liquidità, fornendo “carburante” e “lubrificante” al motore dell’economia. L’effetto sarà quello di far diminuire i tassi di interesse, favorendo gli investimenti e l’inflazione, ma penalizzando l’euro rispetto alle altre valute.
Chi ha capitali da investire, infatti, sceglierà sulla base dell’affidabilità della valuta e del suo tasso di interesse, che ne definisce il rendimento. Quanto maggiore è il tasso di interesse di una certa divisa (o valuta, i termini sono sinonimi), supponiamo l’euro, tanto più il nostro “sceicco” o “mandarino” sarà invogliato a investire in euro. Se la BCE facesse crescere i tassi, egli dovrebbe tendenzialmente continuare a vendere dollari ed acquistare euro. Per il banale meccanismo della legge della domanda e dell’offerta, l’effetto sarà quello di far salire ancora l’euro rispetto al dollaro. Quindi se ad esempio supponiamo che il cambio €/US$ di partenza sia 1,18 prima della manovra, con l’aumento dei tassi USA dovremmo aspettarci un cambio magari a 1,20.
Se il dollaro continua a diminuire, sarà più facile per le imprese USA esportare i loro beni e servizi in Eurozona, e sarà invece più difficile per le imprese europee vendere all’estero, perché per gli acquirenti risulteranno più care. E se le imprese di un paese non esportano, per quel paese sarà molto difficile far crescere economia e ricchezza.
Questa premessa per dimostrare come valute, tassi, liquidità, politica monetaria e crescita siano concetti intimamente connessi. Si diceva una volta che un battito d’ali di farfalla a Hong Kong crea una tempesta a Londra; e oggi, col mondo globalizzato e interconnesso, gli effetti sono ancora maggiori.
Con l’euro molto forte su tutti i mercati, come nell’attualità, le imprese europee trovano grande difficoltà ad esportare: per questo le autorità monetarie non possono permettersi – come forse vorrebbero, o come almeno vorrebbe Frau Merkel – di aumentare i tassi, perché l’euro si rafforzerebbe ancora di più, e quindi il proposito di ridurre gradualmente il QE deve necessariamente essere valutato anche in relazione al cambio €/US$. Questa è la spiegazione di quanto affermato in premessa.
In questo semplice meccanismo, si scontrano le due diverse visioni della politica monetaria dell’Unione: quella tedesca che vorrebbe conti in ordine, bilanci pubblici in attivo e bassa inflazione (e quindi tassi in crescita) e quella dei paesi più deboli che ritengono invece prioritario lo sviluppo dell’economia e la crescita dei loro sistemi, attraverso l’aumento di produzione e posti di lavoro.
Fino a qui siamo nella fisiologia. La situazione dei mercati valutari di oggi è però complicata da almeno tre o quattro fattori diversi: l’effetto Trump in USA, l’onda lunga della Brexit, l’andamento dei pezzi del petrolio e – sullo sfondo – la situazione dei mercati asiatici e dei paesi emergenti.
Ognuno di questi fattori merita almeno un articolo a parte, e nelle prossime settimane proveremo ad analizzarli, sempre nell’ottica degli effetti che essi comportano sull’economia reale e sulle scelta di portafoglio.
A complicarci la vita, intervengono inoltre altri due aspetti che influiscono su questo panorama: la situazione geo-politica, e in particolare i venti di guerra che soffiano dalla Corea del Nord e le conseguenze degli eventi atmosferici devastanti in Florida e sulla costa atlantica degli Stati Uniti.
Il primo aspetto ha a che vedere con la funzione di riserva di valore e di bene-rifugio che il dollaro ha tradizionalmente svolto nel mondo, e che oggi può essere seriamente messa in discussione se le minacce coreane dovessero materializzarsi.
Il secondo riguarda invece i costi necessari alla ricostruzione, l’effetto sul bilancio pubblico USA – il cui disavanzo viene coperto semplicemente stampando nuovi dollari, a patto che qualche sceicco o mandarino o fondo pensione scandinavo poi li compri – e le scorte di petrolio che prevedibilmente diminuiranno, facendone aumentare il prezzo.
Ci sarà da divertirsi a seguire il mercato nei prossimi mesi. Nel frattempo la domanda è: chi ha dollari in portafoglio deve venderli o è meglio che se li tenga? E chi non ne ha dovrebbe comprarli in vista di un possibile aumento del cambio del dollaro? Al termine di questa serie di articoli, vedremo la risposta corretta. O almeno quella “razionalmente” corretta, che non è detto che sarà quella che si verifica, perché i mercati, ahimè, non sempre sono razionali.
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