Facebook e dintorni: quanto vale il rispetto della privacy?
Il recente caso di utilizzo illegale di informazioni contenute in Facebook è emblematico e molto grave, anche se tutt’altro che sorprendente.
Emblematico, perché i social network sono ormai al centro dell’esistenza delle persone nell’era digitale: che piaccia o meno, nessuno ormai può permettersi di ignorare la loro importanza e il loro impatto sulla vita di relazione.
Molto grave, perché ogni volta che viene violata la privacy è come se venisse sottratta/rubata una parte della personalità di ognuno, come trovarsi nudi su un palco con tutti che guardano.
Non sorprendente, perché è impensabile che il giochino ci venga fornito gratis et amore. In qualche modo dobbiamo essere consapevoli che qualcosa da pagare c’è sempre: non esistono pasti gratis, come recita il titolo di un noto libro di Milton Friedman del 1976 che riecheggia un popolare proverbio americano.
E il prezzo non è il fastidio di doversi sorbire inserzioni pubblicitarie più o meno moleste, ma qualcosa di molto più prezioso: l’enorme patrimonio di informazioni di cui le piattaforme dispongono.
Foto, commenti, like, condivisioni, gruppi di interesse, liste di “amici”, fino ad arrivare alla traccia di siti e profili visitati. E’ possibile, con sistemi adeguati, fare una “radiografia” di ciascun utente, con le sue preferenze, lo stile di vita, le convinzioni politiche o religiose. E ciò senza alcun margine di errore, perché la fonte è lui stesso.
Il valore commerciale di questo patrimonio informativo è sconfinato: è possibile vendere a ciascun produttore un elenco di nominativi che potranno essere bersaglio perfetto di politiche commerciali mirate, sul modello di Amazon.
Il trucco dei cookies[1] è un gioco da ragazzi rispetto alle infinite potenzialità dello sfruttamento commerciale dei dati disponibili sui social network. Quando vediamo arrivare sulle nostre caselle di posta proposte di acquisto di prodotti correlati ad altri che abbiamo ordinato o di categorie merceologiche e servizi in qualche modo collegati a siti che abbiamo visitato, è perché il “biscottino” che ci è rimasto attaccato durante la visita a quel sito ha lasciato briciole che ci hanno fatto rintracciare.
Per non parlare delle ancor più vaste possibilità di truffe, intrusioni e manipolazioni: questo è appunto il tenore delle accuse rivolte alla società inglese Cambridge Analytica, che avrebbe sottratto a Facebook il bagaglio informativo su 50 milioni di profili in tutto il mondo, al fine di venderne l’utilizzo a forze politiche per scopi elettorali e di creazione di consenso.
La notizia del furto, avvenuto nel 2015, ha fatto crollare in borsa il valore di Facebook, ma soprattutto ha reso evidente quanto fossero deboli le difese dei dati personali contenute nelle piattaforme social.
In Italia venne approvata tempo fa una bellissima legge sulla privacy, la legge 675 del 31/12/1996 rubricata “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”, che ha prodotto enormi quantità di carta e moduli da firmare, aumentato i livelli di burocrazia per ogni atto e creato una apposita Authority.
La finalità della legge è importante e condivisibile, più controversa la sua reale utilità, se pensiamo a quante volte veniamo fatti oggetto di contatti indesiderati o ci rendiamo conto di come il nostro nome sia inserito in liste e database al di fuori dal nostro controllo.
E’ eclatante, al proposito, il caso di “World check”, di cui ha parlato tempo fa l’autorevole quotidiano “La Repubblica”
Si tratta di un database planetario che contiene una watchlist, ovvero lista di osservazione, gestita da privati e venduta in abbonamento dal gigante dell’informazione finanziaria Thomson Reuters.
I suoi clienti sono banche, studi legali, polizie di tutto il mondo che possono richiedere le informazioni relative a nominativi che entrano o sono entrati in contatti con loro. Prima di aprire conti, relazioni di affari, contratti di lavoro, si cerca così di capire se chi ci sta davanti sia un pregiudicato, un terrorista, un protestato e così via.
Il problema è che non si sa chi inserisce le informazioni in questo database, con quali criteri, che fonti usa, come vengono aggiornate.
A chi avesse la sventura di essere inserito in questa lista, potrà così capitare di vedersi rifiutata l’apertura di conti bancari, di contratti, di relazioni commerciali, di iscrizione a sodalizi, molto spesso senza sapere neanche perché.
Naturalmente il soggetto che gestisce questo “grande fratello” ha sede fuori dall’Italia, dall’Europa, forse dal mondo ed è totalmente irresponsabile di quello che contiene, comunica e vende. Meno che mai coloro che compaiono nella lista possono sapere cosa c’è scritto di loro, chiedere rettifiche o aggiornamenti.
Con buona pace di tutta l’imponente architettura della normativa sulla privacy, dell’Authorithy garante, degli adempimenti inutili e costosi, viene davvero da chiedersi quanto valga il rispetto delle persone e se sia giusto calpestare in modo così clamoroso il diritto alla riservatezza.
Anche se ormai siamo abituati all’invadenza del mercato, che porta spesso a dimenticare ogni forma di rispetto quando c’è la prospettiva di un guadagno, non è accettabile che il diritto alla privacy e alla tutela dei dati personali venga così platealmente disatteso.
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