GLOBALIZZAZIONE E LAVORO (2)

GLOBALIZZAZIONE E LAVORO (2)

Mar, 08/21/2018 - 09:30
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Nel mondo di Internet si lavora di più e meglio?

Abbiamo visto nel precedente articolo che una società aperta, in cui persone, beni e capitali possono liberamente circolare e spostarsi da un paese all’altro, ha più chances di crescere e svilupparsi di una società autarchica.

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Esaminiamo ora un diverso punto di vista: l’era digitale ha reso estremamente più facile commerciare e fornire servizi da un punto all’altro del pianeta, aumentando in misura esponenziale la competizione fra aziende e fra lavoratori e prestatori d’opera, soprattutto in settori tecnologicamente avanzati. Così oggi è estremamente più facile e meno costoso acquistare beni e servizi laddove sono più convenienti. La possibilità di fare confronti e scandagliare il mercato con un semplice click o un tocco dello smartphone ha demolito rendite di posizione di cui godevano produttori o commercianti per il solo fatto di essere fisicamente vicini ai clienti.

 

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La conseguenza evidente è che molte aziende piccole e legate al territorio si sono trovate in difficoltà e hanno dovuto uscire dal mercato: questo, a sua volta, ha fatto sì che i loro dipendenti si siano trovati senza lavoro. Nella misura in cui infatti questi posti di lavoro non sono stati compensati da altri che nel frattempo, e proprio grazie a Internet, si sono creati o resi disponibili, è ovvio che la disoccupazione – almeno quella tradizionale – è aumentata, spesso in modo anche preoccupante.

 

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Pensiamo ad esempio ai distretti produttivi, i cosiddetti cluster, che traggono la loro forza dal fatto di concentrare in una zona ristretta tecnologie, competenze, tradizione, network. Laddove il punto di forza di questi distretti era la possibilità di produrre a basso costo (ad esempio nel tessile a Prato), la concorrenza asiatica è stata devastante. In Cina o in India, grazie a condizioni di lavoro spesso disumane ai limiti dello schiavismo, gli stessi tessuti si potevano produrre e vendere a prezzi molto più bassi e la competizione tra i due prodotti non aveva storia. Non restava altro che riconvertire gli impianti in produzioni diverse oppure alzare bandiera bianca.

A Prato, in verità, è stata scelta un’altra soluzione: è stata “importata la Cina”, ovvero sono arrivati in massa i Cinesi che hanno rilevato le aziende, o ne hanno impiantate di nuove, applicandovi i propri criteri produttivi. Tuttavia, in generale, nel settore produttivo gran parte del lavoro è scomparso e non sempre è stato facile riciclarsi in settori diversi.

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Un altro esempio eclatante si è verificato nel settore bancario: con l’avvento della banca digitale e delle nuove tecnologie, le banche-rete territoriali, basate sul modello di business delle filiali e degli sportelli vicini al cliente, hanno perso gran parte del loro appeal in favore di quelle a tecnologia avanzata, addirittura senza sportelli. Al posto degli impiegati oggi troviamo una piattaforma informatica che rende possibile effettuare le operazioni da remoto, senza muoversi da casa e senza fare file.

Il risultato? Secondo recenti stime (fonte: First-Cisl) il numero dei bancari negli ultimi dieci anni (2008-2017) è diminuito da 340.000 a 295.000 e altri 22.000 sono già in lista-esuberi, pronti per l’esodo secondo i piani industriali già diffusi; il numero degli sportelli dal 2010 al 2017 è diminuito di 6.289 unità, con molti piccoli centri che ne sono rimasti sprovvisti.

Difficile pensare che tutte queste persone abbiano trovato o possano trovare una nuova occupazione.

Ma se è impossibile fermare il progresso tecnologico, è invece assolutamente possibile chiudere le frontiere o renderle meno penetrabili ai prodotti stranieri, come sta facendo l’Amministrazione USA sotto l’egida di Donald Trump.

 

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Nella storia l’imposizione di dazi e barriere doganali non ha mai portato vantaggi durevoli, tutt’al più qualche beneficio settoriale e limitato nel tempo. Se infatti le aziende aperte alla concorrenza degli stranieri possono essere avvantaggiate, certo ne soffrono quelle che invece esportano i propri prodotti, che si troveranno esposte a scontate misure ritorsive.

Altrettanto certo è il peggioramento dei consumatori, che saranno obbligati ad acquistare prodotti nazionali più cari o di qualità inferiore rispetto a quelli esteri.

In termini di prodotto interno lordo, è vero che crescerà il fatturato delle imprese aperte alla concorrenza, tutelate dalle misure protezionistiche, ma è altrettanto vero che probabilmente diminuirà quello delle imprese che esportano, in molti casi più efficienti in quanto in grado di competere con concorrenti stranieri.

Chiudendo inoltre le frontiere ai lavoratori immigrati, certamente il reddito che questi ultimi avrebbero percepito almeno in parte finirà nelle tasche di italiani, ma forse diminuiranno le rimesse dei lavoratori nazionali all’estero o, in generale, i consumi interni si potrebbero contrarre. Gli effetti finali in termini quantitativi dovrebbero essere valutati caso per caso e quelli in termini qualitativi sarebbero comunque sicuramente negativi: meno prodotti disponibili per i consumatori o beni di investimento per i produttori, a maggior prezzo e/o di qualità più bassa.

Opinione di chi scrive è che le misure protezionistiche abbiano una funzione politica (come nel caso di Trump: America first!) più che economica e che, comunque, possano essere mantenute per periodi di tempo limitati: quando c’è l’interesse o la convenienza generalizzata, nessuna legge o provvedimento alla lunga può arginare il corso naturale delle cose. Molto meglio attrezzarsi e gestire la nuova situazione, cercando magari di trarne vantaggio.

Questo non significa che tutto quello che va nella direzione del mercato sia buono e giusto: abbiamo già visto che in molti Paesi la competizione commerciale viene combattuta e vinta con le armi della repressione e dello sfruttamento. Sono modelli certamente non esportabili, né auspicabili in una società evoluta.

Certamente in periodi di crisi, come è accaduto negli ultimi dieci anni, la concorrenza peggiora le condizioni di lavoro, sia quelle economiche (minori salari) sia quelle generali (orari più lunghi, straordinari non riconosciuti, minori tutele sindacali). Non sempre infatti il mercato è il migliore dei mondi possibili e il giusto equilibratore come ritenevano gli economisti classici da Smith in poi e non sempre quello che è utile è anche buono: fondamento della società deve sempre essere la persona e non l’economia o la finanza.