QUELLA VOGLIA STRISCIANTE DI INFLAZIONE…
La pandemia ha portato problemi nuovi e complessi in un sistema già fragile e squilibrato
Il nostro paese è tradizionalmente terra di poeti, di navigatori e di santi, ma soprattutto di grandi risparmiatori. E di proprietari di immobili: pochi paesi come noi hanno una così elevata propensione al risparmio e una così alta percentuale di abitazioni di proprietà.
Il debito pubblico italiano, in rapporto al prodotto interno lordo, è ai livelli storicamente più alti di sempre, destinati ad aumentare ulteriormente per effetto delle misure prese dalla pubblica amministrazione per contrastare la pandemia e la connessa recessione. Per dare un’idea, a fine 2020 tale rapporto si è attestato al 162%: come se, in una famiglia, a fronte di un reddito di 50.000€ all’anno, ci si ritrovasse indebitati per oltre 80.000€, ma in una situazione in cui le spese superano annualmente le entrate di 3.000€[1].
Numeri che per una famiglia sarebbero ampiamente insostenibili, ma con i quali il nostro paese convive ormai da tempo, proprio grazie a quello che si diceva all’inizio: elevata propensione al risparmio e ampia diffusione della proprietà immobiliare. In effetti gran parte del debito pubblico nazionale, quella rappresentata da BOT, BTP e CCT in circolazione, è nel portafoglio delle famiglie come tradizionale forma di impiego del risparmio.
Su un sistema dunque già strutturalmente fragile e squilibrato in partenza, si è abbattuta la pandemia con le sue conseguenze, oltre che sanitarie (ovviamente quelle più devastanti), anche economiche.
I periodi di lockdown hanno imposto la chiusura di fabbriche e negozi; la gente, obbligata a chiudersi in casa e limitata nei movimenti, ha drasticamente ridotto le occasioni, ma anche la voglia, di consumare e spendere; si è certamente rarefatta la propensione ad investire e ad indebitarsi da parte di famiglie e imprese.
Tutto questo ha contribuito a ridurre il PIL, il reddito del paese; mentre – giustamente – il debito pubblico cresceva sia per le maggiori spese in assistenza sanitaria sia per i sussidi e i trasferimenti a titolo di ristori e indennizzi: ecco spiegato perché il rapporto debito/PIL è aumentato in modo così deciso.
Come abbiamo detto a più riprese, al sostegno della politica di bilancio da parte dello Stato (o meglio, di tutti gli Stati) si è accompagnata una politica monetaria fortemente espansiva, caratterizzata da continua immissione di liquidità nel sistema, da parte delle banche centrali.
In effetti il maggior canale di trasmissione degli stimoli alla produzione è venuto proprio dalla moneta, proseguendo una linea ormai da molto tempo intrapresa e che in seguito alla pandemia è stata ulteriormente rafforzata. L’obiettivo è quello di stimolare la produzione attraverso il mantenimento di tassi di interesse bassi, che fungono da incentivo per indebitarsi. Se le imprese e le famiglie si indebitano, per fare investimenti in impianti, attrezzature, nuovi prodotti, processi e magazzino (le prime) oppure per acquistare immobili o ristrutturare quelli di proprietà (le seconde), automaticamente il prodotto interno lordo cresce, perché ci saranno altre imprese che devono produrre quei macchinari, costruire quelle case o fornire materiali e personale per ristrutturare.
Ma se famiglie e imprese non si indebitano, pur in presenza di tassi molto bassi e vicini allo zero, certamente i benefici economici che si perseguivano non si potranno ottenere, come insegna il caso del Giappone dove, a fronte di tassi di interesse ormai negativi da molti anni, la produzione non si sposta.
La moneta viene creata attraverso acquisti di titoli di Stato da parte della banca centrale: la liquidità trasferita (perlopiù alle banche) in contropartita dei titoli acquistati è immessa nel circuito economico e inizia a circolare, aumentando i mezzi di pagamento di cui la collettività dispone. Se questi mezzi non sono impiegati per fare prestiti – come in teoria dovrebbero – arrivano sui mercati finanziari e contribuiscono a far aumentare i prezzi delle attività qui negoziate.
Un effetto forse non abbastanza considerato fino ad ora, è proprio quello della ricchezza che questa maggior disponibilità (di contanti oppure di titoli che sono aumentati di prezzo) determina, in un momento in cui la propensione di spesa è strutturalmente ridotta, come si diceva sopra. E qui il cerchio si chiude: il risparmio tende ad aumentare ancora e, tutto sommato, l’investimento in immobili è ancora una delle opzioni più gradite.
Se tutto andasse come previsto, se l’economia si comportasse davvero come è scritto nei libri di scuola, ci sarebbe da aspettarsi – come esito finale del complesso di questi interventi di politica economica – una forte ripresa dell’inflazione, ben oltre il livello dichiarato come target del 2% all’anno. Non si tratterebbe della classica inflazione da domanda (che però prima o poi dovrà crescere, altrimenti tutto diventa inutile), ma il risultato potrebbe essere molto simile e in effetti i tassi stanno già lentamente risalendo. Nella realtà, l’inflazione galoppante sembra però un pericolo ancora lontano, come l’esperienza giapponese insegna.
La generazione che ha vissuto l’iperinflazione degli anni ‘70 ha ormai da tempo ceduto il passo ai più giovani, per i quali non può esserci la stessa percezione del pericolo. Un po’ come la pressione sanguigna che, quando cresce, ci fa sentire energici e attivi ma, se cresce troppo, rischia di essere letale.
C’è quindi una voglia strisciante e diffusa di inflazione, che potrebbe essere anche – oltretutto – la via d’uscita dell’enorme debito che stiamo accumulando, anche perché un’altra forma di estinzione del debito non è pensabile.
[1] L’altro rapporto rilevante, come è noto, è quello fra deficit e PIL, ovvero fra differenza fra spesa pubblica ed entrate pubbliche e prodotto interno lordo. Tale rapporto, che secondo gli accordi di Maastricht avrebbe dovuto essere inferiore al 3%, si attesterà a fine 2021 al 6%, per cui – rapportato a un reddito di 50.000€ come nell’esempio – nel nostro caso implicherebbe un disavanzo familiare, appunto, di 3.000€.
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