MAGARI FOSSE SOLO IL CINQUE PER CENTO
L’inflazione è ben superiore al 5% e soprattutto è tutt’altro che temporanea
Torniamo a parlare di inflazione. Siamo stati fra i primi a parlarne in tempi non sospetti e, anche se ora l’allarme prezzi è universalmente riconosciuto come il principale fattore che influenzerà l’economia del paese (e non solo) in questo nuovo anno, è necessario tornare sull’argomento.
Da un lato, infatti, esiste una differenza non da poco fra il livello ufficiale e quello effettivo o, almeno quello percepito dai consumatori e dai produttori; dall’altro è necessario aggiornare la strategia di investimento del patrimonio per tener conto della nuova realtà. E’ inoltre importante capire come si muoveranno le dinamiche della domanda e dell’offerta e che influenza potranno avere i due fattori esterni, virus e geopolitica, che sono sullo sfondo ma potrebbero entrare – senza preavviso – a gamba tesa nella situazione dei mercati. Procediamo con ordine.
I dati ufficiali parlano di un’inflazione al 7% in America e al 5% in Europa, entrambi livelli che non si vedevano da decine d’anni. Ma se andiamo a vedere l’effettivo aumento del costo della vita, quello che si avverte quando facciamo la spesa o paghiamo le bollette, la percezione è ben superiore. Per i costi dell’energia elettrica, sono attese bollette in aumento del 55% per la luce e del 49% per il gas; i generi alimentari crescono a tassi diversi ma ampiamente superiori alla doppia cifra: pasta 38%; latte 15,5%; caffè 80%; uova 26% per limitarsi a quanto diffuso dalle associazioni di categoria.
Gli aumenti delle materie prime sono molto rilevanti e sui costi industriali incide anche la difficoltà di approvvigionamento: molti materiali sono diventati difficili da reperire, e in alcuni settori c’è una vera e propria scarsità come nell’edilizia, nell’acciaio e nei microconduttori. Questo determina non solo l’aumento dei tempi di consegna, ma soprattutto l’impennata dei costi dei prodotti finali.
Decisivo l’andamento della domanda: se dovesse continuare a crescere – come ha fatto finora sulla spinta delle politiche economiche e monetarie espansive dei governi – la pressione sui prezzi aumenterebbe ancora; se invece, come sembra più probabile, dovesse rallentare, anche l’inflazione inevitabilmente si raffredderebbe. Ed è questo lo scenario più gettonato dagli economisti, tanto che molti hanno parlato di “fenomeno temporaneo” o comunque ritengono che siamo in prossimità del picco, dopo di che inizierà la discesa.
Con l’annuncio dell’abbandono di policy monetarie espansive, già si sono avuti i primi aumenti dei tassi di interesse (sulle scadenze lunghe), con le inevitabili battute d’arresto sui mercati azionari e obbligazionari: è notizia di ieri che dopo tre anni il tasso sui bund decennali è tornato sopra lo zero.
Via via che la liquidità in circolazione sarà drenata attraverso le vendite di titoli da parte delle banche centrali, i tassi continueranno ad aumentare: si prevedono tre/quattro aumenti in corso d’anno da parte della Fed, e almeno un paio in Europa.
D’altra parte, dovrebbero a questo punto manifestarsi sulle economie dei diversi paesi gli effetti positivi dei sostanziosi incentivi alla ripresa mobilitati come risposta alla crisi della pandemia. Negli Stati Uniti il più gigantesco piano di sostegno della storia, dopo i contrasti che hanno frenato l’approvazione al Congresso della proposta Biden, dovrebbe finalmente prendere corpo e, nel nostro piccolo, dovrebbero essere erogati i primi 18 miliardi del PNRR da oltre 200.
Siamo dunque a un bivio: da una parte uno scenario positivo in cui il reddito aumenta, gradualmente si riporta la situazione dei mercati in condizione di normalità e ci si assesta a un’inflazione che magari non sarà più il 2% auspicato prima della crisi, ma il 3 o il 3,5%.
Dall’altra uno scenario recessivo con produzione in calo e disoccupazione in crescita, inflazione ancora alta (a causa delle variabili esogene di aumento delle materie prime): la tristemente già conosciuta “stagflazione”.
Le decisioni delle banche centrali (se e quanto spingere in direzione restrittiva oppure rinviare le misure anti-inflazionistiche a quando la ripresa sarà più solida) sono difficili e delicate.
In ogni caso le strategie di portafoglio dovranno essere riviste e adeguate al nuovo scenario. Solo per mantenere inalterato il valore del nostro patrimonio, dovremmo avere una redditività nominale complessiva di almeno il 5%, cosa non impossibile ma nemmeno facilissima, in un mondo di tassi ancora negativi o nulli. Questo significa dover aumentare necessariamente il profilo di rischio, in un momento che – come abbiamo visto – potrebbe vedere molte aziende entrare in difficoltà. Anche l’aumento della componente azionaria, inevitabile, andrà a scontrarsi con un mercato che sarà lontano dai fasti dello scorso anno, sicuramente più volatile e quindi più rischioso. Il settore obbligazionario, che sarebbe in grado di offrire almeno un flusso cedolare (interessi periodici), è ancora da evitare perché finché i tassi crescono, i prezzi delle attività finanziarie sono destinati a scendere.
Dovremo essere così bravi da diversificare il portafoglio, in modo da ridurre il grado di rischio, senza tuttavia rinunciare al booster di redditività che l’azionario potrà ancora rappresentare per tutto il 2022, anche se molto meno degli anni passati.
Con in più l’incognita, per quanto riguarda il nostro paese, del quadro politico instabile per l’imminente elezione del Presidente della Repubblica: la sola eventualità che Draghi non possa gestire questa fase ha già portato un aumento di tassi superiore a quello europeo e, quindi, una notevole crescita dello spread.
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