IL RITORNO DI FIAMMA DELLA FIDUCIA
La cultura della fiducia diventa culto
Il nostro sito si occupa oggi di un argomento insolito, generalmente (ma erroneamente) collocato fuori dal contesto economico: la fiducia, nell’accezione di “autostima” o, come dicono gli inglesi, self confidence. Si tratta di un tipico concetto psicologico (e se vogliamo sociologico), che però può avere importanti implicazioni anche per quanto riguarda due topics che, invece, conosciamo da vicino: il marketing e la leadership. Vediamo quali sono queste implicazioni.
Nella pubblicistica e nei corsi di formazione manageriale di matrice soprattutto statunitense è da sempre diffusa una notevole enfasi sull’autostima: dal training autogeno al coaching per quadri e dirigenti, il messaggio che veniva dispensato ai giovani aspiranti leader era forte e chiaro. Se vuoi avere successo, fare carriera, emergere a scuola e sul lavoro, devi credere in te stesso, essere sicuro di te, delle tue doti e delle tue capacità. Non ti è concesso avere dubbi o incertezze, perché ogni pausa che ti prendi è un ostacolo che ti allontana dalla meta e un’opportunità per i concorrenti. L’aquila che si crede un pollo (secondo la storiella del gesuita, scrittore e psicoterapeuta indiano Anthony de Mello) e altre amenità del genere erano gli strumenti utilizzati.
A parte gli eccessi e le mode del momento, il punto centrale della storia era certamente condivisibile: era importante avere piena consapevolezza dei propri mezzi e fiducia nelle proprie capacità per sfruttare al massimo i talenti e cogliere le opportunità.
Questo tipo di teorie aveva però conosciuto una lunga fase di scarsa popolarità sulla scia delle tendenze egualitaristiche e livellatrici portate dal Sessantotto e dalla conseguente contestazione al sistema capitalistico.
Negli ultimi anni, l’empowerment (potenziamento) sembra nuovamente tornato sugli scudi e un recentissimo saggio di due sociologhe della London School of Economics e della City University di Londra[1] pone al centro della sua analisi il concetto della “cultura della fiducia” o meglio del “culto della fiducia”, come talvolta le autrici scrivono con un gioco di parole fra culture e cult.
Il loro ragionamento - rivolto al mondo femminile tanto che si parla di “neofemminismo” – è che alla base di questo “culto” sta l’amor proprio, la cura di sé stessi, l’accettazione dei propri limiti. Tutto ciò può però esporre a un rischio potenziale: quello di concentrare la causa dei problemi e dei fallimenti all’interno delle persone, trascurando così i riferimenti alla dimensione sociale e collettiva.
Non a caso il ritorno di questo fenomeno è iniziato proprio con la grande crisi finanziaria di inizio millennio, che ha indotto soprattutto le donne a guardare dentro sé stesse, concentrarsi sul proprio essere e non pensare che le barriere strutturali siano tutte all’esterno, nella società. È un nuovo concetto di austerità che ha portato ad accettare ed anzi valorizzare le proprie differenze invece che cercare di superarle e combatterle.
Proprio la pubblicità si è fatta portatrice di un nuovo forte messaggio che sfrutta le insicurezze (delle donne ma non solo) per vendere ancora più prodotti, mettendo in evidenza una diversità di corpi, gruppi etnici, religioni. Si pensi, per fare un esempio eclatante, alla proliferazione di marketing mirato nei confronti delle donne incinte.
In passato si puntava in modo massiccio sulla omogeneizzazione, favorendo il senso di appartenenza sociale, riconoscimento e integrazione del target (donne o uomini che fossero) nella comunità di riferimento; oggi si sottolinea la diversità e l’originalità, puntando proprio sulla fiducia, l’autostima e la cura di sé.
Anche la pandemia, in questa tendenza, ci ha messo del suo: si sono rafforzati gli imperativi ad avere fiducia e a coltivare la “cura di sé”, respirare profondamente e dormire meglio. In tal senso veniva fatta promozione forte su cibo “comfort”, TV benessere, brani e libri edificanti. Nel libro si parla anche di tendenze post-razziali: si sottolineano le differenze per farne un punto di forza e, ça va sans dire, per invogliare all’acquisto.
Sulla stessa scia si pone l’evoluzione della cultura della fiducia in termini di leadership. È ancora fondamentale coltivare e far crescere l’autostima, ma mentre prima questo era finalizzato al superamento delle diversità o delle originalità in quanto debolezze, oggi la diversità è invece esaltata per farne un pilastro ideale. Anche in questo caso, il passaggio culturale non è privo di problemi da un punto di vista sociologico, depotenziando lo stimolo a guardare all’esterno e a cercare di migliorare l’habitat in cui ci muoviamo.
Siamo ancora in lotta per emergere ma, mentre prima si cercava di collocarsi sullo stesso piano dei competitors per affermare i nostri talenti nella logica di un’integrazione totale, ora si punta sulla diversità come oggetto della fiducia. Il messaggio è ancora quello dell’aquila che si crede un pollo e anzi ne è sicuramente rafforzato, ma viene formulato partendo da un presupposto diametralmente opposto. Il manager non deve guardare fuori da sé per far prevalere il suo talento ed emergere, ma dentro di sé facendosi forte dei suoi tratti distintivi e della diversità.
Si tratta di un passaggio sottile ma decisivo, che ovviamente funziona anche, e a maggior ragione, in ambiti quale la scuola e l’istruzione e la formazione manageriale.
Dunque diverso è bello, è forte, ma soprattutto può consumare di più.
[1] Shani Orgad e Rosalind Gill “Confidence culture”, Duke University Press, Durham, Febbraio 2022.
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