BOND, IL MIO NOME È BOND
Tornano nel radar le obbligazioni
Pare proprio che il tempo di ricominciare a investire in obbligazioni sia arrivato, almeno a giudicare dalla domanda che in questi ultimi giorni si è riversata sui mercati finanziari. Lo avevamo ampiamente previsto nelle scorse settimane, ma la sensazione è che sia ancora un po’ troppo presto. A nostro avviso è opportuno attendere che la curva dei tassi di interesse abbia raggiunto il suo picco e inizi a scendere.
Il motivo è semplice: esiste una correlazione inversa fra prezzo delle obbligazioni e tasso di interesse, nel senso che quando i tassi aumentano, il prezzo di mercato dei titoli scende. Il meccanismo è intuitivo: se abbiamo un titolo che rende il 5% (prendiamo per semplicità il caso di un tasso fisso) e partiamo da una situazione di equilibrio - nel senso che è correttamente valutato dal mercato e ha un prezzo di 100 -quando i tassi aumentano, questo prezzo scende. Chi detiene quel titolo, che ora rende meno degli altri, vorrà venderlo per prenderne uno più performante e questo, aumentando l’offerta, tenderà a deprimerne il valore.
Ma l’operazione ha anche un’evidenza algebrica. Supponiamo che i tassi di mercato aumentino del 20%, passando dal 5 al 6. Un titolo del genere vedrà modificare il suo prezzo di mercato in modo da poter rendere non più il 5 ma il 6%, e questo – in un mercato teoricamente perfetto – porterà il suo valore a circa 83,4: a quel valore la cedola del 5% dà infatti un rendimento del 6%, che è il nuovo tasso di mercato.
L’interesse di un investitore è quello di acquistare il titolo al suo prezzo più basso e questo accadrà quando i tassi raggiungeranno il valore massimo. Ora, i banchieri centrali stanno dicendo con chiarezza che i tassi dovranno ancora aumentare e che non si deve abbassare la guardia contro l’inflazione.
Il fatto è che in questo momento il mercato non sembra credere alle autorità monetarie, perché vede l’inflazione ridursi significativamente e non pensa che il pugno di ferro si spinga fino a soffocare i sistemi economici che cercano di resistere all’incombenza della recessione.
Questo ottimismo, alimentato dai buoni risultati sul fronte dei prezzi, ha avuto la manifestazione più evidente con il collocamento, avvenuto la scorsa settimana, di un’obbligazione ENI destinata al pubblico retail, ovvero anche ai piccoli risparmiatori, anziché – come in genere accade – ai soli investitori istituzionali.
L’emissione aveva un ammontare di 2 miliardi di Euro; in soli 5 giorni la domanda ha superato i 10 miliardi di euro, da parte di oltre 300.000 risparmiatori. Considerando che erano 4 anni che un’azienda italiana non collocava bond per il mercato retail, si può ben dire che si è trattato di un successo travolgente e imprevisto, per un titolo a 5 anni in periodo di tassi in crescita e con la recessione alle porte.
In genere quando un’azienda vuole approvvigionarsi sul mercato dei bond, ricorre all’offerta per gli operatori istituzionali: molto più rapida, sicura e meno costosa in termini di commissioni di collocamento (anche se può spuntare tassi di rendimento inferiori). Le offerte al retail richiedono un tempo di approvazione del prospetto di almeno tre mesi e il problema non è tanto il ritardo per il fabbisogno finanziario, quanto l’instabilità dei mercati. In tempi di forte volatilità come questi, tre mesi sono quasi un’era geologica, tutto può succedere. Il mercato può girarsi diverse volte e rendere le condizioni impervie. Un’offerta per gli istituzionali si chiude in genere in un paio di giorni, prevedendo un taglio minimo elevato – da 100.000 € in su – e quindi relativamente pochi sottoscrittori.
ENI, ad esempio, è un gruppo di grande prestigio, solido e redditizio. Sul mercato ha grande autorevolezza, anche se il calo dei prezzi petroliferi di questi ultimi due mesi può averne penalizzato le quotazioni. Tuttavia, alla fine l’operazione è stata un successo, rafforzando l’immagine e la considerazione del gruppo, e consentendo di reperire risorse ad un tasso del 4,39%, sensibilmente inferiore al costo del credito bancario e ancor di più al costo del capitale.
Ma è stato un successo anche per il sistema Italia, ancora strutturalmente debole, alle prese con un nuovo inedito governo e con un debito pubblico tuttora gigantesco e in crescita.
A parte questo, l’episodio è significativo anche per un altro profilo. La normativa Mifid, per molti aspetti benemerita, ha diviso gli investitori in due macrocategorie: professionali e retail. Questi ultimi operano sul mercato a diversi livelli, magari anche per importi significativi o con notevole frequenza, ma non lo fanno per mestiere, e quindi la normativa – al fine di tutelarli – li esclude dalla possibilità di investire in titoli complessi, con profili di rischio elevati o anomali.
La presunzione della normativa è che gli investitori retail non abbiano le conoscenze e gli strumenti necessari per valutare il rischio insito in questo tipo di strumenti e che, spinti dal miraggio degli elevati profitti, si trovino esposti in titoli “spazzatura” o siano vittime di truffe finanziarie.
Il punto è che in tal modo anche molte buone opportunità di investimento vengono sottratte al “parco buoi” per essere riservate a fondi di investimento, hedge funds e simili, che collocano poi le loro quote agli stessi clienti retail. È vero che nei loro portafogli – di grandi dimensioni - si può ottenere una diversificazione che riduca i rischi, ma certo la normativa fornisce loro una notevole posizione di rendita e una riserva di clientela da acquisire con poco sforzo.
Se la vigilanza sull’operato degli investitori professionali fosse efficace, il rischio per gli ignari risparmiatori verrebbe in effetti eliminato, ma molto spesso i portafogli di questi fondi nascondono insidie che talvolta originano clamorosi crac finanziari. Così il risparmiatore si ritrova “cornuto e mazziato”: non solo escluso dalle opportunità di impiego più ghiotte e confinato ai titoli di Stato o blue chips, ma anche vittima di investimenti troppo rischiosi.
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