ORA ET LABORA
Finalmente cresce l’occupazione
Da molte settimane evocata, sia negli Stati Uniti che in Europa e in Italia, la recessione non si è ancora insediata nei nostri sistemi economici, che in modo inaspettato – anche se in percentuali modeste – continuano a crescere. Già questa è una buona notizia, ma l’aspetto ancora più positivo è che sta aumentando l’occupazione e, per quel che ci riguarda, la parte in crescita è proprio quella permanente.
Limitandoci a guardare al nostro paese, sarebbe ovviamente improprio credere di aver risolto il problema e cantare vittoria, anche perché – lo abbiamo detto più volte – restano (e talvolta si aggravano) le fragilità strutturali endemiche del nostro sistema. Tuttavia, ii numeri ci danno qualche speranza ed è giusto sottolinearlo.
L’Istituto nazionale di Statistica, l’ISTAT, ha anticipato i dati salienti del rapporto sul 2022, che verranno diffusi i primi giorni di marzo in modo ufficiale e questi dati sono decisamente positivi e dimostrano la resistenza dell’”azienda Italia” alla recessione che comunque arriverà.
In primo luogo, la produzione nazionale continua, seppure di poco, a crescere e non si è ancora invertito il trend che vede il PIL aumentare, anche se a ritmi sempre più lenti. L’ultimo trimestre del 2022 evidenzia, è vero, una frazionale riduzione (-0,1%) rispetto al trimestre precedente, ma anche un significativo aumento (+1,7%) rispetto all’ultimo trimestre del 2021 e ciò nonostante il minor numero di giornate lavorative (tre giorni in meno rispetto al terzo trimestre dello stesso anno e 2 giorni in meno rispetto all’ultimo dell’anno precedente). Il dato corretto per tenere conto sia della stagionalità che del minor numero di giornate si è attestato al 3,9% rispetto al 2021.
Le stime governative per la produzione, anche per l’anno in corso, verranno quindi riviste in senso migliorativo.
Ma, come si diceva, la parte più importante di questo andamento migliore delle aspettative è la ritrovata correlazione fra aumento della produzione e aumento dell’occupazione. Negli ultimi tempi la correlazione diretta fra produzione e lavoro – uno dei capisaldi della teoria economica - era stata pesantemente messa in discussione dai dati empirici: anche quando il PIL aumentava, il lavoro non cresceva. Questo perché da un lato aumentava la produttività del lavoro (con lo stesso numero di occupati si riusciva a produrre di più) e dall’altro perdevano peso relativo i lavori cosiddetti labour intensive, ovvero ad alto contenuto di lavoro.
Le nuove tipologie di occupazione legate a internet, ad esempio tutta la filiera dell’e-commerce, sono caratterizzate proprio dal numero relativamente limitato di addetti: con poche persone è possibile realizzare fatturati anche molto alti. Quindi se, ad esempio, diminuiscono 100 dipendenti nell’industria e aumentano 100 addetti nella new economy, probabilmente il prodotto lordo aumenterà. Ecco perché non è più rispettata la vecchia regola che vedeva l’occupazione come funzione diretta del PIL.
Le ultime rilevazioni statistiche mostrano invece anche un significativo aumento degli occupati: in Italia nel 2022 sono stati creati 334.000 nuovi posti di lavoro rispetto al 2021 e la cosa positiva è che si tratta in gran parte di dipendenti permanenti e autonomi, mentre il numero dei dipendenti a termine risulta diminuito di 30.000 unità. Ciò significa che sono cresciute proprio le tipologie di lavoro più stabili e non quelle precarie.
Rispetto al novembre 2022, il tasso di disoccupazione è stabile al 7,8%.
Dietro l’aridità dei numeri, emerge finalmente una realtà in cui – da un punto di vista quantitativo – il lavoro dopo molto tempo torna a presentare un panorama meno preoccupante. Da un punto di vista qualitativo, invece, risulta ancora penalizzato sia il lavoro femminile che quello giovanile, e soprattutto risultano ancora molto problematici i canali di incontro fra domanda e offerta di lavoro. Inoltre, ci sono ancora forti squilibri territoriali, ovvero disomogeneità fra le diverse aree del paese, con particolare problematicità di alcune aree del Mezzogiorno.
Ovviamente i numeri ben poco ci dicono sulla qualità del lavoro, sia dei nuovi occupati sia di quelli che già lo erano. Ad esempio, sicuramente nascondono una situazione in cui ben difficilmente un giovane riesce a trovare un impiego attinente al suo percorso di studi e di formazione; così come possono nascondere altre distorsioni, inefficienze, iniquità.
Va però riconosciuto che l’aumento dei posti di lavoro stabili è un’ottima notizia, sia in se stessa sia perché contribuisce a innescare il circuito virtuoso di aumento di reddito disponibile, aumento della domanda, e quindi ancora aumento di produzione e ricchezza.
Viene da pensare alle polemiche che accompagnarono il complesso di norme del Jobs Act[1], con le quali si mirava a rendere più flessibile il rapporto di lavoro, rendendo più facile licenziare con la prospettiva però di incentivare le assunzioni. Al tempo si disse che avrebbe favorito il precariato, ma l’esperienza ha dimostrato che – a distanza di qualche anno – sono stati proprio i lavori stabili a crescere. Sarebbe oggi un errore enorme abolire ora queste norme (come chiede il Sindacato) in virtù della migliorata situazione occupazionale.
Il rischio è che – quando siamo in prossimità della piena occupazione o comunque in una fase in cui i lavoratori hanno un ruolo importante sul mercato – si possano innescare delle tensioni inflazionistiche partendo dall’aumento del costo del lavoro. Se chi cerca dipendenti, o alcune tipologie di dipendenti, ha difficoltà a trovarli sul mercato, è ragionevole ritenere che possa essere disposto a offrire maggiori salari e d’altra parte chi è già occupato, sapendo che c’è richiesta insoddisfatta per quelle mansioni, può avere la possibilità di chiedere aumenti di stipendi.
Guardando dall’altra parte dell’Oceano, dove sono ormai diversi mesi che il sistema è in piena occupazione, gli analisti hanno sottolineato il fatto positivo che questo non ha ancora provocato tensioni salariali e che sta contribuendo a mantenere resiliente il sistema produttivo, evitando proprio che si inneschi la spirale negativa sulla produzione.
[1] Jobs Act indica informalmente una riforma del diritto del lavoro in Italia (promossa e attuata in Italia dal governo Renzi, attraverso l'emanazione di diversi provvedimenti legislativi e completata nel 2016) volta a flessibilizzare il mercato del lavoro. Il provvedimento fu adottato nell'intento di ridurre la disoccupazione stimolando le imprese ad assumere. I contenuti principali sono:
- l'introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e la possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare un lavoratore dipendente senza giusta causa, prevedendo l'applicazione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori dopo i primi tre anni di rapporto, ma la reintegrazione nel posto di lavoro viene limitata ad alcuni casi particolari, venendo sostituita in generale dal diritto ad ottenere una indennità a titolo di risarcimento.
- la rimodulazione dei contratti di lavoro dipendente esistenti in Italia;
- la creazione della NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego);
- piano di incentivi e decontribuzione per le imprese per favorire le assunzioni a tempo indeterminato.
(da Wikipedia)
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