MILLE NON PIÚ MILLE
Dopo i primi mille giorni del Governo Meloni, facciamo un sintetico bilancio dell’economia del Paese

Fine d’anno, tempo di bilanci. Proviamo quindi a fare un sommario bilancio - per quello di cui questo sito prevalentemente si occupa, ovvero di numeri ed economia – dell’attività di questo Governo, magari non solo dell’anno in corso ma dell’intero mandato, dato che proprio durante l’anno in dirittura d’arrivo, e in particolare nel mese di luglio, sono trascorsi mille giorni dall’insediamento.
All’approssimarsi dell’anno mille, epoca d’oro del terrapiattismo e di altre barbare credenze e usanze, si temeva che proprio nel mille ci fosse la fine del mondo, e per questo si diceva “mille non più mille”; un po’ come quando si temevano disgrazie e nefandezze all’arrivo del duemila (che poi non si sono puntualmente verificate). Dopo i mille giorni del Governo Meloni, invece, la maggioranza sembra più solida che mai (a parte qualche scaramuccia di matrice leghista, prontamente rintuzzata dalla Premier) e ci sono ormai pochi dubbi che riesca ad arrivare a fine legislatura.

Il bilancio “in numeri” del governo non può che essere in chiaroscuro, con aspetti positivi e aspetti negativi; alcuni numeri – in verità quelli prevalenti - indicano buona salute dello Stato (come lo spread, il seppur lieve ma significativo miglioramento dei conti pubblici, l’andamento degli investimenti e della bilancia commerciale); altri evidenziano problemi irrisolti (la produzione, l’inflazione, l’andamento demografico, l’occupazione soprattutto giovanile e femminile).
Nel complesso bisogna riconoscere – anche da parte di chi, come noi, non ha mai nascosto la diffidenza per questa compagine governativa dettata soprattutto dai precedenti politici e personali degli esponenti – che questo Governo, e soprattutto la sua leader, hanno lavorato bene, ottenendo risultati confortanti che hanno portato l’Italia a presentare oggi condizioni migliori di quando si è insediato.

A nostro avviso il merito principale è del Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che chi scrive ha conosciuto ai tempi della Lega dura e pura, ed ha sempre considerato una delle poche persone serie e competenti di quel gruppo (insieme all’ex governatore del Veneto Luca Zaia), di cui al contrario ha pochissima stima. Si dice che sia un politico e non un tecnico, ma spesso si dimentica che è un bocconiano e che sa sempre quello di cui parla. Ma la dote più apprezzabile è soprattutto il basso profilo, la tranquillità e l’aplomb, quello che gli inglesi chiamano understatement, e che da noi – terra di apparizioni smodate e talk-show urlati – è pressoché sconosciuta, a partire da molti suoi colleghi del Governo.
Giorgetti è uno cui piace parlare coi fatti, come ogni buon brianzolo che si rispetti. E i suoi fatti parlano chiaro: lo spread fra BTP e Bund, indice dell’affidabilità che i mercati riconoscono ai nostri titoli del debito pubblico, ha abbattuto quota 100 basis points[1] (ora è sotto a 67) e si avvia allegramente verso il terreno negativo. L’unica altra volta in cui quota 100 era stata infranta fu infatti nel 2021, quando era a Palazzo Chigi Mario Draghi. E, nell’anno in corso, ha incassato la promozione dell’agenzia di rating Standard & Poor che ha portato in aprile la valutazione dell’Italia da BBB a BBB+: le due cose sono correlate perché un miglioramento del rating induce gli investitori istituzionali (che sono obbligati ad investire in titoli con rating minimo BBB, considerato investment grade) ad acquistare in quantità maggiore i nostri BTP facendone aumentare il prezzo e diminuire il rendimento, e quindi lo spread.

Va detto che gran parte del merito di questo risultato è dell’altro termine di confronto, ovvero il tasso di interesse sul debito pubblico tedesco che è sensibilmente aumentato a causa della problematica situazione economica in cui si trova la Germania, che sta attraversando forse la peggior crisi dal dopoguerra.
Nei 1.000 giorni del governo il deficit pubblico (differenza fra spesa pubblica ed entrate dello Stato) è passato dall’8,1% del PIL nel 2022 al 3,4% del 2024, anno nel quale il disavanzo primario (ovvero il deficit depurato della spesa per interessi sul debito pubblico) è stato trasformato in avanzo primario per 10 miliardi di Euro (primo fra i paesi del G7 a raggiungere questo obiettivo nell’era post-Covid). Anche il debito pubblico è stato, pur in misura modesta, ridotto, dal 138,3% al 135,3% del PIL e l’inversione di tendenza è un segnale decisamente importante.
Tutto questo considerando la zavorra che il precedente governo ha lasciato in eredità grazie all’infausto “superbonus 110%, costato alle casse dello stato oltre 130 miliardi con pesanti ipoteche sui conti dei 5 anni successivi.
Onestamente bisogna riconoscere che si tratta di ottimi risultati.

L’altra faccia della medaglia è però la resilienza dell’inflazione, che per i prossimi due anni le previsioni ufficiali indicano ancora al 2%, anche se l’esperienza comune e la percezione effettiva sono quelle di un livello ben superiore a quello indicato, che dopo la spinta del Covid ha continuato a mantenersi alto.
Anche l’andamento del PIL è tutt’altro che soddisfacente: dopo lo 0,4% del 2024, quest’anno sarà dello 0,5% e nel 2027 del solo 0,8%. Sono misure ampiamente deludenti che testimoniano le difficoltà della macchina produttiva nazionale; così come negativi sono i dati sull’occupazione, anche se i numeri complessivi parlano di un certo miglioramento del numero degli occupati. Pesano infatti i dati sulla disoccupazione giovanile, specie nel sud, e su quella femminile; mentre a trainare la cifra globale sono soprattutto i contratti con gli ultracinquantenni e quelli part-time.
Ma è ancora l’estesa e tangibile povertà che continua ad essere presente nella nostra società, col numero dei poveri in progressivo aumento, che trovano difficoltà a soddisfare bisogni primari quali l’alimentazione, la sanità e la cura della persona, il lavoro, l’abitazione.
Ancora troppo presto per intonare gli osanna, ma la strada imboccata sembra essere quella giusta.
[1] Per basis point si intende la centesima parte di un punto percentuale, ovvero lo o,o1%
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