GLOBALIZZAZIONE A CAPOLINEA
La guerra in Ucraina è stato il primo grande momento di arresto del fenomeno, ma la vera partita si giocherà fra USA e Cina
Sebbene l’origine del processo di globalizzazione risalga ai primissimi scambi di natura commerciale fra abitanti di villaggi diversi e nel corso della storia dell’uomo abbia conosciuto molti momenti di forte spinta, la globalizzazione in senso moderno si usa far risalire al 1820 con la Pax Britannica[1], come riferisce nel suo ultimo saggio lo studioso turco-israelo-americano Nouriel Roubini, unico che a suo tempo aveva previsto la grande crisi finanziaria del 2007-2008.
In quell’epoca gli Europei, devastati dalle guerre napoleoniche per le conquiste territoriali, scelsero il commercio e i traffici come via per produrre ricchezza: fu in questo contesto che presero forma e si svilupparono le idee sul libero scambio di Adam Smith e David Ricardo.
Da allora, per quasi un secolo, gli scambi crebbero in tutto il mondo in maniera vertiginosa, fino alla Prima guerra mondiale, alla quale seguì la terribile pandemia di febbre spagnola e la grande crisi del 1929. Fu solo con la fine della Seconda guerra mondiale, con gli accordi del GATT (“General Agreement on Tariffs and Trade”) e la costituzione del WTO (“World Trade Organization”) che la crescita degli scambi divenne tumultuosa, fino a raggiungere il picco dopo il crollo del muro di Berlino e la fine ufficiale della Guerra Fredda fra USA e Unione Sovietica.
Se pensiamo alla globalizzazione come “fenomeno di unificazione dei mercati a livello mondiale, consentito dalla diffusione delle innovazioni tecnologiche, specie nel campo della telematica, che hanno spinto verso modelli di consumo e di produzione più uniformi e convergenti”[2], possiamo ben dire che da allora fino al febbraio dello scorso anno, questo processo – sia per quanto riguarda l’aspetto economico che quello socio politico - è cresciuto in misura esponenziale, caratterizzando l’ultimo decennio del secolo scorso e i primi due di quello attuale.
Il termine “globalizzazione” – spesso usato come sinonimo di liberalizzazione - indica quindi integrazione economica, ma anche sociale e culturale, fra le diverse aree del mondo, resa possibile dalla diffusione della tecnologia e dalla rimozione degli ostacoli alla libera circolazione di merci, capitali, persone.
Questo processo, che sembrava inarrestabile, ha dapprima rallentato la sua marcia e poi ha iniziato a contrarsi. Cerchiamo di capire perché, come e soprattutto cosa ci aspetta per i prossimi anni.
Proprio quando l'economia mondiale iniziava a riprendersi dalla pandemia da Coronavirus, la Russia ha invaso l'Ucraina, intensificando gli attriti di natura geopolitica. Il mondo si è così trovato ad affrontare una triplice crisi: una crisi dei prezzi dell'energia, una crisi alimentare e una crisi finanziaria, che vanno a sommarsi alla crisi sanitaria e climatica.
A livello politico c'è una situazione di grande incertezza: l'invasione russa dell'Ucraina il 24 febbraio 2022 segna uno spartiacque nelle relazioni internazionali e nell'economia mondiale. La concorrenza e la rivalità sistemica tra le grandi potenze sono in aumento e i flussi commerciali iniziano a ridursi drasticamente. La prima frattura è ovviamente fra mondo occidentale e Russia, ma questo è solo l’inizio del processo di quella che si potrebbe definire deglobalizzazione: il punto vero è il contrasto crescente fra le due superpotenze di questa epoca: USA e Cina.
Il palcoscenico in cui probabilmente si consumerà la storica frattura fra i due giganti è Taiwan[3]: circa 36.000 chilometri quadrati (poco più di Sardegna e Corsica messe insieme) con soli 24 milioni di abitanti, ha un Prodotto Interno Lordo che ha superato quelli della Svizzera, della Svezia e dell’Arabia Saudita, innalzandola tra le prime venti economie mondiali. Concentra nelle aziende del suo territorio la parte dominante della produzione mondiale di semiconduttori, che arriva fino all’85% di quelli più avanzati, di importanza strategica per tutte le altre industrie tecnologiche inclusi gli armamenti. Taiwan, che tuttora gravita nell’orbita occidentale, è però a pochi minuti di volo da Pechino e a 11.000 chilometri dalla California.
Rispetto all’importanza di Taiwan, il peso specifico nell’economia mondiale dell’Ucraina è sicuramente frazionale: la verità è che il baricentro del mondo globale è ormai lontanissimo dall’Europa ed è lì che si giocherà la fine della globalizzazione o, più probabilmente, l’inizio di una nuova era e di un nuovo ordine mondiale.
La spettacolare crescita della Cina, almeno fino al tutto il secolo scorso, è stata certamente favorita, o quanto meno non ostacolata, dagli Stati Uniti, che vi vedevano un nuovo mercato di un miliardo e mezzo di potenziali consumatori, un serbatoio di materie prime da cui attingere e di forza lavoro a bassissimo prezzo. Certamente le due potenze non entrarono nel nuovo secolo da nemici: ancora troppo distanti le condizioni economiche, di vita e di produzione fra i due paesi. Da allora, e fino alla pandemia, lo sviluppo del Celeste Impero è stato impetuoso e inarrestabile.
Mentre nel mondo occidentale ci si barcamenava cercando di sopravvivere alla crisi finanziaria del 2007-2008 (quella di Lehman Brothers), la Cina continuava la sua marcia. Mandava la sua classe dirigente a formarsi nei prestigiosi atenei statunitensi, francesi e britannici e chiudeva un occhio (o tutti e due) sul saccheggio di idee, brevetti, design, fashion. E piano piano si impadroniva di aziende, infrastrutture, interi quartieri delle metropoli, fino a diventare il vero e proprio azionista di maggioranza di un intero continente, l’Africa.
L’era Trump, con le sue aspirazioni sovraniste e autarchiche, ha portato forti inasprimenti dei dazi doganali e ricerca di fonti energetiche alternative: niente da fare, l’export cinese continuava a crescere, come pure la ricchezza del paese. Nel 2019 la Cina contava 100 milioni di persone con un patrimonio superiore ai 110.000 dollari, sorpassando per la prima volta gli stessi USA.
La Cina catalizzava l’ammirazione e la simpatia dei paesi poveri del pianeta, per i quali era un modello da imitare: anche l’ideologia ha avuto la sua parte, non trascurabile. Chi credeva che avrebbe prevalso la superiorità morale del mondo libero sull’autocrazia puntellata da tirannide e terrore, è rimasto fortemente deluso. Anzi, l’autoritarismo di Xi si è ulteriormente rafforzato, e i cinesi si dicono sicuri che il loro modello di sviluppo è quello vincente.
Mentre l’Occidente viene indebolito e frustrato dalle critiche al razzismo dei “Black Lives Matter” e ai propri valori storici dal movimento “Cancel Culture”, la Cina celebra la marcia verso il sorpasso agli USA. La partita della sfida tecnologica, va da sé, la vede nettamente in vantaggio in settori strategici quali le telecomunicazioni 5G e l’intelligenza artificiale.
É, dunque, la fine della globalizzazione? I liberisti, eredi di Smith e Ricardo, dicono di no, perché un sistema che genera indubbi vantaggi e ricchezze a piene mani troverà sempre il modo di sopravvivere e rigenerarsi. Certo, si dovrà creare un nuovo equilibrio fra i due poli: da un lato gli Stati Uniti, con la vecchia Europa; dall’altro Cina, Russia, Vietnam, Corea del Nord, Iran, tanta parte dell’Africa. In Asia, nuovo baricentro del mondo, si sta organizzando un fronte alternativo alla Cina e intenzionato a contrastarne il predominio, con la saldatura fra l’India di Modi e il Giappone del nuovo corso moderato.
Qui si giocherà la partita della globalizzazione prossima ventura.
[1] Cfr. Nouriel Roubini “La grande catastrofe. Dieci minacce per il nostro futuro e le strategie per sopravvivere”. Feltrinelli, 2023.
[2] Secondo la definizione che ne dà l’Enciclopedia Italiana in www.treccani.it
[3] I dati che seguono sono tratti da Federico Rampini “Fermare Pechino”, 2022
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