L'ABC dell'economia: economia del benessere
Abbiamo interrotto la nostra miniserie sui fondamentali dell’economia parlando di equilibrio, un concetto centrale nella teoria economica. Anche se, concludevamo, non sempre vero in assoluto: molto meglio considerare l’equilibrio dei mercati e del sistema come una situazione da libri di testo, utile come punto di riferimento tendenziale ma non sempre vera in assoluto.
Proviamo allora a estendere la nozione di equilibrio fino a comprendere anche la parte della cosiddetta “economia del benessere”. Gli individui non sono solo produttori, consumatori, risparmiatori, investitori ma anche, appunto, persone. E come tali hanno il diritto (secondo la Costituzione degli Stati Uniti, ma anche secondo la ragionevolezza) di perseguire la loro felicità.
“La felicità è una punizione degli dei” dicevano gli antichi Greci e in effetti è una parola talmente assoluta che può disorientare. Meglio, allora, parlare di benessere e parlarne nei consueti termini economici, forse meno romantici e suggestivi ma certo per noi più rassicuranti.
La nota citazione kennedyana secondo la quale “il PIL misura tutto fuorché la felicità” è parzialmente inesatta, almeno se ci limitiamo al concetto del benessere. La teoria economica ha infatti da tempo elaborato diverse tecniche per misurarne utilità e spiegare il comportamento economico finalizzato al raggiungimento e al mantenimento del benessere.
Proviamo quindi ad avventurarci in questo terreno piuttosto sconnesso, cercando di evitare i passaggi più impervi da un punto di visa tecnico, per giungere direttamente alle conclusioni. I lettori più versati nella scienza economica perdoneranno il metodo approssimativo e l’inevitabile semplificazione.
Il termine “economia del benessere” era il titolo del più celebre lavoro dell’economista inglese Arthur Cecil Pigou nel 1920 ed ebbe un tale successo da connotare, nei decenni a seguire e fino ad oggi, un complesso di fenomeni ed obiettivi che costituiscono spesso veri e propri programmi di economia politica da parte degli Stati sovrani più progrediti.
Il punto da cui partire è quello dell’equilibrio generale, inteso nel senso della migliore e più efficiente allocazione delle risorse disponibili in un determinato sistema. Abbiamo già visto nei precedenti articoli che, in un mercato concorrenziale perfetto, le risorse si distribuiscono in modo tale da realizzare – attraverso il sistema dei prezzi sui diversi mercati – la combinazione più efficiente fra i vari soggetti.
Se facciamo un passo avanti e pensiamo anche al benessere, possiamo immaginare una situazione di distribuzione di risorse e ricchezza tale che siano massimizzate non solo le funzioni economiche (produzione, consumo, investimento, etc.) ma anche il benessere dei cittadini.
Si tratta del cosiddetto “ottimo paretiano”, dal nome dell’economista e sociologo italiano Wilfredo Pareto che lo teorizzò fra il XIX e il XX secolo. In questa situazione, del tutto teorica, qualunque spostamento di risorse da un soggetto all’altro determina un vantaggio per alcuni ma uno svantaggio anche maggiore per altri. Parliamo naturalmente di svantaggio in termini puramente economici e misurabili, ma comprendente anche il concetto di “utilità” che determina il benessere in senso collettivo.
Il passaggio chiave per capire questa nozione è la marginalità, un termine con cui economisti e matematici hanno molta familiarità. Essa si fonda sul concetto di utilità marginale, ovvero la soddisfazione e il benessere – supposto misurabile ovviamente – che derivano da un’unità addizionale di risorsa, un dollaro, un euro, una casa, un chilo di pane e così via.
Partendo da una situazione di “ottimo paretiano”, quel dollaro in più che una diversa distribuzione di risorse nel mio sistema dovesse portare nelle mie tasche comporterà, in un’altra parte dello stesso sistema, una diminuzione di benessere o utilità superiore al miglioramento che ne posso trarre io. Se si guarda quindi all’interesse generale, molto meglio restare dove eravamo.
I nostri teorici del benessere affermano che le forze intrinseche del sistema tenderanno, magicamente, a riproporre una nuova situazione di equilibrio, certamente diversa dalla precedente ma tale – ugualmente – da massimizzare l’utilità per tutti.
Non ci interessa sapere se Pigou e i suoi avessero ragione o se invece sia necessario un intervento equilibratore da parte dello Stato: quello che vogliamo dire è che anche l’arida economia si deve preoccupare del benessere dei cittadini e non solo della loro capacità di produrre e consumare.
Pensiamo a tutta la tematica ambientale e dell’inquinamento. Un vero e reale equilibrio non può prescindere dal considerare anche le condizioni di vivibilità del nostro habitat. Se tutti fossero liberi di inquinare, i profitti monetari a livello generale e le risorse prodotte certamente aumenterebbero, ma il benessere ne risulterebbe compromesso.
La semplice teoria economica quantitativa ci dice che le risorse devono essere concentrate nelle mani di chi le può far moltiplicare. Tuttavia se nel far questo si producono dei danni ad altri e se ne provoca una riduzione del benessere, meglio produrre meno ma garantire una qualità della vita generale maggiore.
Nel prossimo articolo parleremo di un altro concetto essenziale per il benessere collettivo: quello di “esternalità”. Ogni attività economica produce infatti effetti non solo per chi la realizza o ne è interessato direttamente, ma anche talvolta a chi ne è totalmente estraneo, proprio come nel caso dell’inquinamento.
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