SUA MAESTÁ IL DOLLARO

SUA MAESTÁ IL DOLLARO

Mer, 04/23/2025 - 22:49
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Il tentativo di “dedollarizzare” l’economia mondiale è destinato ad essere frustrato per molto tempo ancora

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Il dollaro americano è storicamente la valuta accettata in tutto il mondo negli scambi di beni e servizi (è quindi una misura di valore nel commercio internazionale) ed è anche una riserva nella quale impiegare il risparmio: si può dire che si tratta della moneta a corso legale nella comunità economica e finanziaria mondiale.

Poiché la moneta è di fatto un debito dello Stato che la emette (nelle gloriose banconote in lire era scritto “…pagabili a vista al portatore…”), in questa comunità gli Stati Uniti hanno il privilegio di poter espandere praticamente all’infinto il loro indebitamento pubblico, con l’unico limite che esista qualcuno disposto ad accettare i dollari come pagamento. Si tratta di un privilegio non da poco, perché ogni altro Stato può aumentare il suo debito solo se c’è qualcuno che tira fuori del denaro per acquistare i titoli emessi da quello stesso Stato per finanziarne il debito. Oppure può emettere moneta, con il risultato, pressoché immediato, di causare – a parità di tutti altri fattori – un aumento dell’inflazione.

In definitiva, gli Stati Uniti possono tranquillamente coprire il loro deficit, e quindi, ad esempio, realizzare politiche che favoriscono lo sviluppo della produzione e della ricchezza, semplicemente vendendo i Treasury Bond o cedendo le banconote con l’effigie di George Washington a non residenti che confidano nella solidità del sistema a stelle e strisce.

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Altri Stati possono farlo solo aumentando le tasse oppure accettando tassi di inflazione più alti. È certamente un vantaggio importante, tanto che i Cinesi da tempo stanno cercando di sostituire al dollaro la loro valuta nazionale, il renmimbi, negli scambi internazionali.

Il punto chiave è appunto la fiducia degli investitori. Se all’improvviso crollasse quella del mondo nei confronti degli USA, tutti cercherebbero di vendere i dollari che hanno e il valore del biglietto verde collasserebbe, probabilmente insieme al Governo statunitense e a diversi altri Stati le cui riserve sono in dollari.

Si può ben dire che la capacità degli Stati Uniti di finanziare il suo debito è una funzione diretta della fiducia di cui il sistema gode presso gli investitori di tutto il mondo, e del grado di apertura dei mercati che consente la libera circolazione di beni, servizi e capitali. Paradossalmente, se ogni Stato si chiudesse all’interno dei propri confini e prevalesse un’autarchia generalizzata, i primi a soffrirne sarebbero proprio gli americani.

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È vero che la globalizzazione danneggia i produttori americani perché li espone alla concorrenza cinese, ed è quindi comprensibile lo sforzo di Trump per reindustrializzare gli USA. Ma è anche vero che sono proprio i cinesi a detenere la maggior parte del debito pubblico americano avendo sottoscritto nel tempo valanghe di Treasury Bonds, nei quali sono stati reimpiegati i dollari incassati con le esportazioni. Per questo la nuova amministrazione a stelle e strisce non potrà tirare la corda più di tanto.

Se ne è avuta una dimostrazione quando, in una delle ultime aste di collocamento dei titoli del debito pubblico USA, gli investitori cinesi hanno clamorosamente disertato il mercato, spingendo i prezzi delle obbligazioni al minimo storico, facendone di conseguenza impennare i relativi rendimenti e tutti i tassi di interesse a lunga scadenza. Solo dopo la parziale marcia indietro sui dazi, con esclusione dall’odiato balzello tariffario di alcuni prodotti tecnologici di punta, la situazione si è normalizzata. Del resto, neanche in Asia possono rischiare il crollo dei Bonds, perché il valore delle attività detenute verrebbe polverizzato.

Certamente i propositi di guerra commerciale al Celeste Impero annunciati con grande clamore da Trump non vanno sottovalutati, ma è ben difficile che si arrivi a una rottura completa, perché i primi ad esserne danneggiati sarebbero proprio gli Stati Uniti.

Tuttavia, da qui a dire che il renmimbi si appresta a sostituire il dollaro come valuta di riferimento nei regolamenti internazionali, oggettivamente ce ne corre. La valuta cinese fatica ad imporsi anche negli scambi all’interno dei Brics[1], nonostante la forza di persuasione dei Cinesi: è ancora troppo complicata e difficoltosa la sua circolazione e la movimentazione dei conti valutari rispetto al biglietto verde, e tutto sommato l’economia USA non sta andando poi così male, nonostante i lamenti di Trump.

Anche rispetto al vecchio continente, l’economia americana non solo è più in salute, ma negli ultimi anni è anche cresciuta molto di più. Secondo i dati World Bank, infatti, nel 2008 il PIL USA era allo stesso livello di quello dell’Eurozona, pari a circa 14 trilioni di dollari; nel 2023, quindici anni dopo, quello europeo era cresciuto pochissimo, attestandosi a 15 trilioni, mentre quello USA era balzato a 27. E sempre nel 2023 il PIL pro-capite dello stato più povero degli USA, il Mississippi, era pari a ben 53.000 dollari annui, superiore a quello di Regno Unito, Francia, Italia e Spagna e di poco inferiore solo a quello tedesco.

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È evidente che in questa situazione non si può ragionevolmente pensare che l’euro possa insidiare la supremazia del biglietto verde; e a maggior ragione neanche le chimere delle criptovalute, pur cresciute molto in valore e diffusione, hanno una qualche possibilità di affermarsi in questo senso.

In conclusione, nonostante i proclami e gli squilli di tromba, si può scommettere che la guerra commerciale fra USA e Cina non verrà portata alle estreme conseguenze, e che il dollaro continuerà a svolgere la funzione di valuta di regolamento negli scambi internazionali per lungo tempo ancora.

 

 

 

 

 

[1] Il BRICS è un raggruppamento di economie mondiali emergenti, formato dai Paesi del precedente BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) con l'aggiunta di Sudafrica (2010; con il suo ingresso si aggiunse la S al nome), Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran (2024), Indonesia (2025)