GLOBALIZZAZIONE E LAVORO (1)
Gli effetti della società aperta sul lavoro
Con l’avvento e l’inarrestabile diffusione dell’era di Internet, la società è divenuta interconnessa e, paradossalmente, ci siamo trovati in un mondo più piccolo. Con un click è oggi possibile dialogare da un capo all’altro del mondo, organizzare un viaggio esplorando località mai viste senza muoversi da casa, commerciare e muovere flussi di denaro restando fermi, lavorare in team a migliaia di chilometri di distanza.
Questa enorme apertura può esaltare o impaurire: ha infatti aspetti indubbiamente positivi ma anche elementi su cui porre attenzione e da trattare con sana diffidenza. Certamente il villaggio globale ha potenzialità enormi, ma in termini di qualità della vita non è tutto oro quello che luccica. In primo luogo in tema di lavoro.
Nel precedente articolo Manlio Lo Presti ha esaminato gli effetti sull’occupazione del progresso tecnico e, almeno da un punto di vista quantitativo (i posti di lavoro creati quasi mai compensano quelli distrutti), è difficile dargli torto. Un tema che riprenderemo questo, sotto il profilo macroeconomico: la parte di risorse destinata al fattore lavoro aumenta o diminuisce nell’era di Internet? E il rapporto classico fra occupazione e reddito (nel senso che all’aumentare del reddito aumenta anche l’occupazione) è ancora attuale o è da “rottamare” anch’esso?
Vediamo ora, invece, cosa comporta l’apertura dei mercati sul lavoro. Se Internet abbatte le barriere doganali e i confini degli Stati intensificando la competizione a tutti i livelli, cosa succede al lavoro? Il lavoro in un singolo mercato, ad esempio in Italia, ne risulta avvantaggiato o penalizzato? E le misure di protezione doganale o le barriere all’entrata lo favoriscono o lo minacciano?
Tempo fa in Francia si diffuse il tormentone dell’”idraulico polacco”: fra i transalpini si era infatti diffuso il timore che l’apertura del mercato, conseguente alla libera circolazione di uomini e merci all’interno dell’Unione Europea, avrebbe portato all’invasione di mano d’opera a basso costo e non qualificata dai paesi dell’Est, penalizzando i lavoratori francesi.
A distanza di anni, quanto può dirsi giustificato quel timore? A nostro avviso molto poco. Vediamo, a grandi linee, cosa è successo.
L’apertura del mercato comunitario è stata indiscutibilmente un toccasana per i paesi dell’Est Europa. In primo luogo proprio la Polonia, che ha segnato incrementi di reddito a doppia cifra dai primi anni duemila, ma anche Romania, Slovenia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Croazia, Slovacchia (unica rimasta al palo l’Ungheria) hanno vissuto un periodo storico di grande crescita. Tutti paesi che, un tempo appartenenti al blocco comunista, partivano da una consistente arretratezza economica e hanno avviato una stagione di intenso sviluppo.
In effetti la possibilità di trovare impiego in aree ricche e sviluppate non come immigrati ma come cittadini a pieno titolo, ha molto aumentato i flussi di mano d’opera da Est a Ovest dell’Europa, soprattutto nei settori a più bassa specializzazione.
E sicuramente questo può aver penalizzato alcuni lavoratori indigeni, soprattutto in una prima fase.
Tuttavia il fenomeno è stato limitato da una serie di circostanze: in primo luogo il fatto che l’applicazione di contratti collettivi e l’imposizione degli oneri sociali è uguale fra lavoratori nazionali e comunitari. Per cui un operaio romeno costa al datore di lavoro più o meno quanto un italiano, ovviamente escludendo gli impieghi “in nero”, ovvero non regolari.
In secondo luogo, è ragionevole pensare che gli immigrati (e qui il discorso vale anche per gli extra-comunitari) vengono ingaggiati dove il lavoro c’è e dove spesso la domanda di mano d’opera non è coperta dai locali, in particolare nei settori meno ambiti e dequalificati (ad esempio quello delle badanti o dei lavori agricoli più pesanti).
In generale, non riteniamo che l’apertura dei mercati abbia tolto posti di lavoro ai locali a vantaggio degli stranieri, almeno per quanto riguarda i livelli più bassi. Diverso il discorso per le funzioni più qualificate, per i manager e per la ricerca. Qui la questione dovrebbe essere approfondita, perché l’apertura delle frontiere qualche disequilibrio l’ha effettivamente indotto.
Il ragionamento va però esteso in questo caso alla qualità della vita: meglio farsi curare da un bravo medico indiano o da uno scarso italiano? Meglio far amministrare la propria azienda da un bravo manager francese o da un modesto caporeparto nazionale? Meglio dirottare i fondi della ricerca ingaggiando un brillante laureato israeliano o uno studente nazionale che ha ottenuto il titolo di studio a fatica? Meglio far progettare un ponte a un geniale ingegnere cingalese o a un raccomandato indigeno?
Ognuno può dare la propria risposta, ma non si può non rilevare che i Paesi più progrediti sono quelli che hanno aperto le proprie frontiere dando opportunità a chi lo meritava, indipendentemente dal suo passaporto.
In effetti, tornando all’Unione Europea, gli anni successivi all’istituzione del mercato comune sono stati quelli di maggiore sviluppo per tutti i paesi, in primo luogo proprio per i più industrializzati come Germania e Francia.
Fin qui abbiamo palato soprattutto di apertura dei mercati in termini generali, nel prossimo articolo ci focalizzeremo sulle conseguenze della globalizzazione indotta da Internet e dal progresso tecnologico. E’ comunque fin d’ora abbastanza evidente che un mondo aperto, interconnesso, in cui vige la libertà di circolazione di persone, beni e servizi, ha molte più opportunità di sviluppo e crescita che non un mondo autarchico, chiuso in se stesso e impermeabile dall’esterno
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