FATICA O VOCAZIONE?
Ciò che le macchine possono insegnarci sul lavoro del futuro, e sul nostro modo di percepirlo
Contributo di Claudio Delli Bovi (*)
La mini-serie sul lavoro prosegue questa settimana con il contributo di un giovane informatico, brillante neo-laureato che partecipa ad uno dei più importanti progetti attualmente in corso di realizzazione in Amazon: l’applicazione dell’intelligenza artificiale.
Dopo l’intervento di Manlio Lo Presti, che vedeva in primo piano le contraddizioni e le minacce del mondo iperconnesso e digitale sul lavoro, esaminiamo l’argomento da un punto di vista totalmente diverso, quasi opposto.
Ci si aspetterebbe un elogio a tutto campo delle “sorti magnifiche e progressive” a cui Internet sta destinando il lavoro, e invece scopriamo che alla fine sarà sempre e solo l’uomo la misura di tutte le cose.
Parafrasando il Vangelo di Marco (“il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato”), verrebbe da dire: “non l’uomo per Internet, ma Internet per l’uomo”.
Riusciremo a cambiare il nostro approccio al lavoro in modo da dominare la tecnologia o ne risulteremo dominati? La domanda delle cento pistole…
Buona lettura, dunque.
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Praga, 1920. Karel Čapek, scrittore ceco pressoché esordiente, racconta nel suo dramma fantascientifico R.U.R. (Rossumovi univerzální roboti, “I robot universali di Rossum”) di prodigiosi automi di natura organica, creati con lo scopo di liberare l’umanità dal lavoro.
È la prima volta nella storia in cui viene usato il termine robot, coniato dalla parola robota che in ceco vuol dire appunto “lavoro forzato”. L’idea iniziale era di utilizzare il termine laboři, che tuttavia sembrò all’autore troppo artificioso e fu poi sostituito da roboti. Per quale motivo mi soffermo così tanto su questi termini? In primis perché non sono né un economista né un sociologo, ma mi occupo piuttosto di linguaggio e automazione; soprattutto, però, lo faccio perché vorrei iniziare la mia riflessione sul lavoro nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale partendo proprio dalla sua denominazione nella lingua.
In uno splendido articolo de “L’Indiscreto” Fabio Cantile analizza il senso del lavoro sulla base della distinzione tra l’etimo latino del termine, labor (“fatica, travaglio”), da cui poi si diramano le varianti ben note di “lavoro” nelle lingue romanze (travail, trabajo, trabalho), e il vocabolo tedesco Beruf. Beruf, che probabilmente è reso al meglio in italiano da un termine come “professione”, si lega strettamente a concetti come “chiamata” e “vocazione”, e assume tutto un altro colore rispetto a Werk, parola decisamente più neutra che condivide le radici con l’inglese work. Ciò che segnala Cantile è che, nella traduzione luterana della Bibbia, Beruf è molto spesso preferito a Werk per tradurre sia “lavoro” (ergon) che “lavoro faticoso” (ponos). Senza scadere in retoriche calviniste, questa distinzione lessicale finisce per marcare una differenza netta tra il concetto di lavoro come vocazione (divina o meno) e quello, marcatamente cattolico, di lavoro come punizione per l’uomo, colpevole di fronte a Dio per aver commesso il peccato originale. Come abbiamo letto nel primo articolo di questa mini-serie, è quest’ultimo concetto a collegarsi naturalmente con quello di “lavoro come contratto sociale” che ci è tanto caro.
Con questa breve riflessione, il mio intento non è quello di ribattere alle visioni tragico-allarmiste che sembrano andare per la maggiore quando si parla di lavoro ai tempi dell’Intelligenza Artificiale; in tutta franchezza, neanche io ho mai trovato soddisfacenti le risposte del tipo “si creeranno nuovi lavori”, vere in parte ma decisamente sbrigative.
La mia tesi, se così vogliamo chiamarla, è che l’Intelligenza Artificiale ci stia piuttosto insegnando ad abbandonare il concetto di lavoro come labor e ad abbracciare quello di lavoro come Beruf. Che il nuovo millennio stia cambiando forma al lavoro, e che stia contestualmente stravolgendo i connotati alla figura del lavoratore a cui siamo abituati, è cosa nota. Tuttavia, non esaurirei la questione con la diversità di competenze richieste (che pure è un fattore importante —in questo decennio, non saper utilizzare il computer con disinvoltura si sta già pericolosamente avvicinando ad una condizione di quasi-analfabetismo).
Il lavoratore del futuro è una figura flessibile, dotata di una certa autonomia e alla ricerca continua di un percorso che massimizzi la sua crescita personale. Non solo: anche in grandi realtà aziendali, il dipendente è incoraggiato a “fare sua” la mansione che svolge (Beruf) e a “metterci la faccia” piuttosto che limitarsi a seguire pedissequamente ciò che il contratto stipulato col suo datore di lavoro mette nero su bianco. È questo il concetto di ownership che figura, anche con un ruolo abbastanza prominente, nei Principi di Leadership tanto orgogliosamente sbandierati da un’azienda come Amazon.
Mi si potrà accusare di idealismo nel sostenere che tutti i lavori del futuro debbano diventare necessariamente “vocazioni”. In effetti si tratta di una visione, se non ingenua, certamente a lungo termine, mentre i sommovimenti al mondo del lavoro provocati dalla crescente automazione ci appaiono decisamente più vicini. La mia personale opinione a riguardo è che, mentre il lavoro come Beruf andrà affermandosi, il lavoro come labor si tramuterà (anzi, si sta già tramutando) in qualcosa di diverso prima di scomparire, legandosi indissolubilmente alla produzione di dati.
Quando si pensa al paradigma del Machine Learning (“apprendimento automatico”), tramite il quale le macchine “imparano dai propri errori” a svolgere un certo compito in maniera autonoma (senza cioè che un programmatore debba codificare esplicitamente per loro delle istruzioni da seguire), si può facilmente esserne intimoriti. Tuttavia, bisognerebbe tenere a mente che gli algoritmi di Machine Learning non generano mai conoscenza dal nulla, ma servono soltanto a farla emergere da dati raccolti o prodotti nel mondo reale, dove si presuppone che essa sia già presente in maniera latente. Un po’ come lo scultore che, secondo Michelangelo, non crea ma libera dalla pietra le figure che vi sono già imprigionate.
Il punto è che la sorgente primaria di questi dati è, ancora e irrimediabilmente, l’uomo. In altre parole, con il Machine Learning che prende piede e permea la nostra vita quotidiana, diventa sempre più necessario produrre grandi quantità di dati in maniera sistematica, dai quali le macchine possano poi apprendere in autonomia. E, nella maggioranza dei casi, produrre e/o raccogliere dati si riduce ad un vero e proprio “lavoro di manovalanza” (labor, dunque).
Un esempio emblematico di questo fenomeno è già oggi fornito da Amazon Mechanical Turk, un servizio di crowdsourcing nato nel 2005 che coinvolge un grande numero di “intelligenze umane”, rigorosamente anonime e potenzialmente provenienti da tutto il mondo, e le coordina nel produrre dati dietro compenso, facendogli svolgere una serie di compiti molto semplici e ripetitivi (come assegnare etichette a delle foto, o scrivere le descrizioni di un prodotto). È ragionevole, e aggiungerei auspicabile, pensare che non sarà sempre così.
Nel breve e medio termine, però, disumanizzare delle mansioni che si ritengono “intelligenti” avrà ancora, paradossalmente, bisogno di un sostanziale intervento umano.
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CLAUDIO DELLI BOVI, nato a Siena, classe 1990, è un informatico specializzato nel campo dell’Intelligenza Artificiale. Ha studiato sia a Siena (Ingegneria Informatica) che a Roma (Intelligenza Artificiale e Robotica), dove ha poi conseguito un dottorato in Informatica all’università “La Sapienza”, occupandosi di varie tematiche connesse con l’Elaborazione del Linguaggio Naturale (Natural Language Processing) e la Linguistica Computazionale. Le sue pubblicazioni e attività accademiche sono raccolte qui: http://wwwusers.di.uniroma1.it/~dellibovi
Adesso Claudio è un ricercatore ad Amazon. Fa parte di un team di sviluppatori nato da pochi anni e in continua espansione, con l’obiettivo di lanciare l’assistente vocale di casa Amazon, Alexa, in vari paesi europei (incusa l’Italia).
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