Pensione: Diritto o Privilegio?
Trascorrere una vecchiaia serena, senza l’assillo di dover reperire le risorse per garantirsi un’esistenza dignitosa dopo una vita di lavoro è con tutta evidenza un diritto e una conquista di civiltà. Talvolta però, nell’Italia di oggi, sembra invece un privilegio e un miraggio, che ben difficilmente i giovani di oggi potranno ottenere. In parte ciò è dovuto certamente all’evoluzione demografica degli ultimi decenni, che ha visto progressivamente diminuire la quota di popolazione attiva e produttiva e aumentare quella inattiva, sia disoccupata che pensionata. Gioca tuttavia un ruolo importante anche la distorsione di un sistema che dovrà passare dal calcolo della pensione col metodo retributivo a quello contribuivo[1] cercando di ridurre al minimo i disagi e i diritti acquisiti, ma anche di assicurare sostenibilità finanziaria. Infine – ed è il problema senz’altro più grave – molto è dovuto anche alla disoccupazione giovanile che rende difficile per i ragazzi trovare un lavoro stabile e continuativo che consenta il regolare versamento dei contributi necessari per costituire la pensione. L’ingiustizia viene percepita in modo ancora più forte vedendo privilegi quali le “pensioni d’oro” di cui godono i parlamentari che hanno magari esercitato l’ufficio parlamentare per una sola legislatura, oppure – anche se in via di esaurimento – i “pensionati baby” che nel settore pubblico hanno ottenuto trattamenti di tutto rispetto già all’età di cinquant’anni o poco più. Le dissennate gestioni della previdenza pubblica degli ultimi decenni del secolo hanno assicurato voti e seggi alla classe politica di allora, ma hanno contribuito a raggiungere un livello altissimo e oggi insostenibile del debito pubblico (che ha ovviamente assorbito, fra l’altro, anche i disavanzi del sistema pensionistico). Soprattutto la “gestione allegra” delle casse dello Stato, con la quale è stato assicurato il consenso, ha concesso una serie di privilegi - ma anche di diritti del tutto legittimi dal punto di vista dei percipienti – che è molto difficile, se non impossibile, azzerare oggi senza ledere princìpi costituzionali attraverso la retroattività. Passare infatti dal sistema retributivo (in cui i lavoratori di oggi, attraverso i loro contributi, pagano le pensioni di oggi) a quello contributivo (in cui ciascuno accumula la propria pensione) è pressoché impossibile senza colpire duramente chi alla fin fine ha solo fatto ciò che le leggi del tempo consentivano, e in parte imponevano, magari decidendo in modo irreversibile di lasciare il lavoro perché poteva contare su una determinata pensione. Se costituissimo oggi un sistema pensionistico ex-novo con modalità contributive, come hanno fatto i fondi pensione complementari a partire dalla riforma del 1993, potremmo farlo in condizioni di equilibrio. Ma dover assicurare il flusso di pensioni in essere praticamente senza finanziamento implica la formazione di un disavanzo che qualcuno deve coprire. Tale passaggio venne effettuato nel Cile di Pinochet - sotto la guida dei “Chicago boys”, gli economisti dell’entourage reaganiano del tempo - attraverso la semplice eliminazione dei diritti con una nuova legge, contando sul fatto che il consenso non era necessario e l’ordine pubblico veniva garantito con metodi dittatoriali. Nelle democrazie questo passaggio è invece molto complicato e richiede decenni di tempo, saggezza e gradualità, oltre che un ambiente economico in crescita con popolazione attiva e reddito che aumentano di anno in anno. In Italia, a partire dal governo Dini, si è tentato un “atterraggio morbido” attraverso sistemi misti con i quali si sono dovuti superare i gap generazionali che inevitabilmente creavano, allungando sempre di più l’età della pensione in modo tale da far crescere la quota di popolazione che paga i contributi e limitare quella che riscuote le pensioni. Oggi di fatto si va in pensione a 68 anni e i meccanismi di anticipazione sono ostacolati al massimo. Fino alla recente esperienza della “legge Fornero” con la quale vennero eliminati i benefici già previsti per molti che avevano già lasciato il lavoro, creando il fenomeno dei cosiddetti “esodati”. E’ vero che le condizioni di vita sono oggi generalmente migliorate e che alla soglia dei 70 anni molti sono ancora in buona salute e in grado di lavorare. Ma questo comporta un notevole ostacolo al turnover nei posti di lavoro e all’ingresso dei giovani, approfondendo il divario fra chi lavora, o gode di tutti i privilegi e i giusti diritti garantiti, e chi non lavora o entrerà al lavoro sempre più tardi, rendendo così la pensione un vero e proprio miraggio. Anche le innovazioni normative, quale ad esempio la previdenza complementare, hanno sicuramente migliorato il sistema, offrendo possibilità e soluzioni nuove con opportuni incentivi fiscali, ma solo per coloro che già potevano contare su una pensione. Si possono stipulare polizze assicurative a contributo previdenziale, ma come si fa a pagare i premi se non si ha reddito? Anche opzioni che un tempo consentivano di anticipare l’età della pensione, quale il riscatto degli anni di laurea, sono di fatto precluse a chi non lavora o è appena entrato nel mondo del lavoro con redditi troppo bassi. Un tempo la vita scorreva su binari magari noiosi e prevedibili, ma tutto sommato rassicuranti: il lavoro, la carriera, la pensione. Oggi tutto questo è per molti un vero miraggio.
[1] La differenza fra i due metodi di calcolo della pensione è stata ampiamente descritta nel precedente articolo (si veda https://marcoparlangeli.com/2020/02/12/pensione-paradiso/).
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