FER E SFER, L’E’ TOT UN LAVURER
La storia controversa delle privatizzazioni in Italia
“Fare e disfare, è tutto un lavorare”: il proverbio bolognese che abbiamo cercato di riprodurre nel titolo nella sua versione originale in lingua felsinea, ci ha sempre riportato alla mente il noto paradosso di John Maynard Keynes secondo il quale per aumentare il prodotto nazionale lordo era sufficiente far scavare delle buche in terra e poi farle riempire. Ciò avrebbe determinato, per mezzo dei salari degli operai pagati dallo Stato, un incremento di spesa pubblica che, direttamente e indirettamente (con il meccanismo del “moltiplicatore del reddito”), avrebbe appunto fatto crescere il reddito.
Dopo le recenti vicende della concessione per le autostrade, però, la vecchia saggezza popolare pare in questo caso più propriamente potersi riferire proprio alle privatizzazioni nel nostro paese. La vicenda testimonia la distanza che ancora presenta il nostro sistema economico rispetto un capitalismo avanzato ed efficiente e soprattutto i problemi che si creano quando si affidano a privati servizi pubblici essenziali.
Il punto è capire quale sia il livello ottimale di attività economica che può essere svolta dallo Stato e quello che è invece meglio lasciare alla competitività dei privati. Una volta si diceva “meno Stato più mercato”, per indicare che occorreva favorire le privatizzazioni, con gli eccessi che la presenza pubblica nell’economia aveva manifestato: dalla produzione governativa di panettoni ai balletti di nomine col bilancino politico nelle aziende a partecipazione statale.
Dopo le privatizzazioni massicce degli anni ’90, e la (forse affrettata) liquidazione dell’IRI, oggi pare che il sentiment sia tornato a preferire il coinvolgimento diretto della Pubblica Amministrazione quanto meno nei settori di servizi critici (quali appunto le autostrade o la rete idrica ed elettrica) e nei casi di crisi aziendali di realtà ad elevato impatto occupazionale (si pensi all’ILVA di Taranto o all’Alitalia).
La vicenda delle autostrade prese avvio il 14 agosto 2018 con il tragico crollo del ponte Morandi a Genova, che provocò 43 vittime e la cui responsabilità venne immediatamente attribuita dalla principale forza politica di governo di allora all’incuria e alla negligenza di Autostrade per l’Italia (ASPI), il soggetto che aveva avuto dallo Stato la concessione a gestire la rete autostradale. La Società è detenuta all’88,06% dalla holding Atlantia, quotata in borsa, a sua volta controllata col 30,25% (attraverso una subholding) dalla famiglia Benetton e partecipata anche da soci importanti (la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Lazard, HSBC con circa il 5% ciascuno; un fondo sovrano asiatico con oltre l’8%).
La richiesta immediata di quella parte politica fu di revocare immediatamente la concessione, sulla base del fatto che la concessionaria (ASPI, appunto) non avrebbe effettuato gli investimenti necessari alla manutenzione in efficienza della rete autostradale, ai quali la concessione stessa obbligava.
E’ iniziato così un lungo periodo di quasi due anni in cui da un lato Atlantia sosteneva la correttezza del suo comportamento e comunque si dichiarava disponibile ad intervenire con programmi di intervento straordinari, dall’altro la politica insisteva per la revoca della concessione e comunque perché il socio di maggioranza, la famiglia veneta che ha fatto fortuna col tessile, togliesse il disturbo. Tutto questo mentre la Magistratura non ha ancora terminato la propria indagine sulle responsabilità penali (siamo ancora nei tempi “normali” di istruttoria) il titolo Atlantia in Borsa ha attraversato le montagne russe e la rete autostradale continua a mostrare tutta la sua inadeguatezza con code chilometriche soprattutto in Liguria.
Finalmente in settimana pare si sia arrivati a un punto fermo, consistente nell’agevolare l’ingresso in qualità di socio di maggioranza di Cassa Depositi e Prestiti (soggetto formalmente privato, ma controllato dal Ministero dell’Economia e partecipato in misura importante da un nutrito gruppo di fondazioni bancarie), e forse di altri investitori, al fine di ridurre la partecipazione dei Benetton intorno all’11%. Non vorremmo addentrarci troppo nelle “tecnicalità” dell’accordo, ma alcune considerazioni di merito e di metodo possono essere già essere fatte e certamente non depongono a favore del nostro sistema nel suo complesso.
Risulta infatti piuttosto evidente come tutti, ma proprio tutti, gli attori di questa triste vicenda – una vera e propria “commedia degli errori”, se non ci fosse l’immensa tragedia del crollo e delle morti – abbiano tenuto comportamenti sbagliati, anche se con diverse gradazioni di gravità.
Non abbiamo particolare simpatia per gli imprenditori che hanno tratto vantaggi enormi dal processo delle privatizzazioni degli anni ’90, che molte volte consentì loro – alcuni di essi vennero definiti “capitani coraggiosi” e l’etichetta suona oggi beffarda – di appropriarsi di aziende spesso in buona salute, che operavano in regime di quasi monopolio e generavano enormi volumi di cash-flow, impiegando risorse finanziarie proprie talvolta ridicole. Anche nel caso delle autostrade, abbiamo visto come i Benetton possano controllare l’azienda con una partecipazione del 30%, sicuramente non tutta finanziata con capitale ma in parte anche a debito, in modo tale da limitare al massimo l’esborso.
Molto spesso è anche vero che, grazie a particolari influenze in ambito politico, gli accordi con la parte pubblica e le concessioni sono stati stipulati a condizioni senz’altro non particolarmente penalizzanti per i privati. E soprattutto è incredibile come gli amministratori del concessionario non si siano dimessi cinque minuti dopo il disastro.
Tuttavia non possiamo dare completamente torto a chi ha parlato di “esproprio alla sudamericana”, senza peraltro conoscere in base a quali criteri è stata valutata la società per consentire l’ingresso di CDP. L’attuale socio di maggioranza è stato condannato dalla politica, immediatamente e senza appello, mentre l’indagine penale è ancora in corso. Non solo: è stata sdegnosamente rifiutata la loro partecipazione alla ricostruzione del ponte e alla manutenzione. Eppure il livello dei tecnici delle società ex-pubbliche è in genere riconosciuto di ottima qualità. E ora chi sostituirà questi tecnici? Esistono competenze immediatamente utilizzabili nel paese, considerando che Atlantia detiene anche le autostrade spagnole?
Non sappiamo ancora come finirà la faccenda delle clausole penali, perché la revoca della concessione prevede dei costi a carico del committente, che a questo punto verranno – come è ovvio – addossati ai contribuenti. Si parla di cifre variabili dai 7 ai 23 miliardi di Euro, comunque enormi di cui in un modo o nell’altro lo Stato dovrà farsi carico, a tutto vantaggio del socio allontanato: oltre al danno, la beffa.
E infine: si è consentito di ridicolizzare una importante società del listino italiano, Atlantia appunto, lasciandola oscillare pericolosamente sul mercato dove un giorno ha perso il 25% e il giorno dopo l’ha recuperato, senza che nessuno vi ponesse rimedio. Certamente non un bel viatico per un paese, come il nostro, che ha assoluto bisogno di attrarre capitali dall’estero per convogliarli sugli investimenti. Quello che è successo con Atlantia non è certo una buona pubblicità.
Alla fine, dunque, siamo tornati dove eravamo: le autostrade di nuovo pubbliche, ma questa volta ricomprate impiegando il risparmio postale dei cittadini (CDP gestisce infatti il risparmio raccolto dalle Poste): per questo “fare e disfare tutto un lavorare”.
Ma il vero problema è quello della giusta presenza dello Stato nell’economia: ne parleremo nei prossimi articoli.
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