USQUE TANDEM?
Fino a che punto lo Stato può spingersi in economia?
Siamo partiti parlando di autostrade, siamo arrivati a discutere sui massimi sistemi. E’ giusto, e fino che punto, che lo Stato si metta a gestire aziende e faccia affari sul mercato?
Iniziamo col dire che non esiste una risposta valida in assoluto, che funzioni in ogni sistema e in ogni epoca storica, al di là delle convinzioni ideologiche che, sul tema, hanno sempre visto posizioni radicali: da un lato i liberisti, che sostengono la netta prevalenza dell’iniziativa privata libera e concorrenziale; dall’altro gli statalisti, che preferirebbero la completa proprietà pubblica dei mezzi di produzione.
L’esperienza insegna che in natura non esistono le soluzioni estreme. Anche nei regimi più convintamente capitalistici, una quota di attività riservata alla mano pubblica è sempre presente; così come nei sistemi di ispirazione marxista una certa progressiva apertura ai capitali privati viene comunque incoraggiata.
Nel campo dei servizi pubblici è, ad esempio, difficile immaginare una gestione privata di amministrazione della giustizia, tutela dell’ordine pubblico e difesa militare. Altri tipi di servizi sono invece talvolta affidati in outsourcing[1] in quanto si ritiene che efficienza e qualità possano essere garantite meglio da un imprenditore piuttosto che da un pubblico funzionario. E vengono citati casi di sprechi, di corruzione, di scarsa motivazione che giustificherebbero la gestione privata.
In realtà non è sempre detto che privato sia meglio: basti guardare ai casi recentemente emersi di corruzione e malfunzionamento nella sanità privata. E’ però ragionevole attendersi che, laddove non ci sia la spinta motivazionale del profitto personale, l’attenzione all’impiego efficiente delle risorse e alla produttività sia molto minore.
D’altra parte esistono molti casi in cui le barriere di ingresso rendono difficile per un privato entrare in un mercato: questo accade quando sono richiesti volumi iniziali di investimento molto elevati. E’ il motivo per cui anche nei sistemi occidentali è spesso la mano pubblica a fare gli investimenti necessari ad avviare la produzione, come nel caso della rete ferroviaria, elettrica o idrica.
Rilevante anche il senso dello Stato che ogni paese presenta in modo diverso. Ad esempio la Francia, la cui attitudine capitalistica è fuori discussione, ha da sempre mantenuto una forte presenza della pubblica amministrazione nei servizi e nelle produzioni e, anche nel caso in cui questi servizi siano gestiti da privati, lo Stato mantiene comunque una rilevante potestà di indirizzo se non di controllo, talvolta marcatamente invasiva e comunque viene posta molta attenzione a che la proprietà resti saldamente in mani nazionali.
Nei confronti della grande industria, oltre che dei servizi, c’è in questi casi una forte tendenza a privilegiare i connazionali negli assetti azionari: è ben difficile per uno straniero acquisire o scalare società francesi, come è ben difficile trovare un non francese in ruoli di responsabilità manageriali di aziende importanti. Se il capitale privato nazionale non è sufficiente o non è disponibile, la mano pubblica trova sempre il modo di garantire comunque il controllo, in sostanziale violazione della disciplina comunitaria, basata sulla parità di trattamento e sulla non ingerenza dello Stato nell’economia al fine di non alterare i meccanismi competitivi.
Lo stesso, a ben vedere, per quanto riguarda la Germania: molto attenti nel far rispettare le regole agli altri, i tedeschi sono altrettanto determinati a non rinunciare alla predominanza dello Stato nei settori chiave, si tratti della siderurgia o del sistema bancario, dove si sono opposti all’invadenza della vigilanza europea sulle loro Sparkassen, le casse di risparmio federali, sostegno e puntello dello sviluppo economico locale.
Se un’azienda fallisce, non è consentito che lo Stato intervenga a salvarla e meno che mai ne acquisisca la proprietà: ciò comporterebbe un’infrazione al principio della parità di trattamento fra soggetti europei, della libera circolazione di capitali e persone e un indebito aiuto di Stato. Sono consentite deroghe solo per casi specifici, limitati nel tempo e in regime di autorizzazione ad hoc, purché ci sia un piano di dismissione preciso e impegnativo, come nel caso del Monte dei Paschi di Siena, attualmente di proprietà del Ministero dell’Economia, ma con l’impegno dello Stato ad uscirne in tempi brevi.
Molto diverso fu, ad esempio, l’atteggiamento della Gran Bretagna durante gli anni ’80, quando la grande industria e il settore finanziario si trovarono ad affrontare una profonda crisi economica, che stava mettendo in ginocchio il paese. L’approccio liberistico e la determinazione di Margaret Thatcher consentirono agli inglesi di superare le difficoltà rinunciando però alla supremazia degli assetti proprietari. Questo consentì di attrarre capitali esteri che di fatto salvarono il settore produttivo, limitando l’impatto su lavoro e reddito seppure a prezzo della perdita del controllo nazionale. Ad oggi, nessuna delle grandi imprese o delle grandi banche del Regno Unito è di proprietà di soggetti inglesi, ma esse continuano a sviluppare reddito e posti di lavoro.
Il caso dell’Italia (come, per altri versi, della Spagna) è intermedio rispetto a questi due estremi: sono state realizzate nel tempo – soprattutto negli anni 90 - le privatizzazioni di molte aziende pubbliche, ma spesso cercando di favorire in modo più o meno esplicito i concorrenti nazionali, attraverso la formazione di cordate o “noccioli duri” di gruppi di imprenditori che, in un contesto di scarsa disponibilità di capitali di rischio, potessero acquisirne e mantenerne il controllo. I “capitani coraggiosi”, col sostegno della politica del tempo e del sistema bancario, riuscirono così a realizzare ottimi affari, con impiego di denaro proprio ridotto al minimo e pronti a cedere le aziende con notevoli plusvalenze oppure a chiamare in soccorso lo Stato nei momenti di difficoltà.
In altri casi sono stati configurati soggetti formalmente privati, e quindi non sottoposti ai vincoli comunitari di cui si parlava sopra, ma sostanzialmente e saldamente in mano pubblica, come la Cassa Depositi e Prestiti, chiamata ora a subentrare nella gestione delle autostrade. In tal modo, con creative operazioni di ingegneria finanziaria e istituzionale, si è potuto utilizzare l’enorme massa del risparmio postale degli italiani per intervenire in settori considerati strategici.
Se volessimo trovare una sintesi a quanto detto finora, dovremmo partire dalla considerazione che alcune funzioni sono di primaria responsabilità dello Stato e rivestono un carattere di necessità assoluta: prima ancora dei servizi sopra menzionati (giustizia, ordine pubblico, difesa), parliamo di sanità e istruzione. La nostra idea è che si tratti di beni essenziali che ogni Stato civile deve garantire e assicurare a tutti e che non dovrebbero essere ridotti al rango di semplice attività economica con l’obiettivo del profitto. Per questo riteniamo che ospedali e scuole debbano sempre essere pubblici e aperti a tutti.
Al di fuori di questi settori, però, è bene che lo Stato non si cimenti nell’attività economica, come è successo in anni in cui era proprietario di aziende che producevano panettoni, automobili o fornivano servizi turistici. Anche nei programmi di infrastrutturazione, con adeguate articolazioni ormai ampiamente diffuse (ad esempio attraverso il project finance[2]) può essere coinvolto il settore privato e limitato il più possibile l’intervento pubblico.
Vedere persone respinte dagli ospedali perché non dotati di capiente carta di credito o non accolte in istituti di istruzione di eccellenza perché non in grado di pagare le costose tasse di iscrizione, significa comunque, per uno Stato moderno e civile, rinunciare alle proprie funzioni e prerogative. Sanità e istruzione non possono essere attività finalizzate alla mera ricerca del profitto, ma beni comuni che devono essere assicurati a ogni cittadino, naturalmente in condizioni di trasparenza ed efficienza.
[1] Col termine outsourcing (con un brutto italiano tradotto in esternalizzazione) si intende la pratica di trasferire alcune funzioni, servizi o attività all’esterno dell’azienda, facendo ricorso a soggetti terzi. Normalmente, nella gestione aziendale, si ottiene così il risultato di sostituire un costo fisso (il personale e le attrezzature necessarie a fornire quel servizio) con un costo variabile (il compenso per il fornitore.
[2] Il project finance (o finanza di progetto) è un sistema di organizzazione e finanziamento di durata pluriennale normalmente utilizzato per la realizzazione di grandi opere pubbliche e basato sulla partnership fra soggetti pubblici e privati, con lo scopo di limitare l’impiego delle risorse pubbliche e coinvolgere nel progetto sia partner tecnici che finanziari.
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