UNO SPETTRO SI AGGIRA (ANCORA) PER L’EUROPA
L’inflazione, che ha ormai cessato da tempo di essere un problema, continua a spaventare le istituzioni europe
Lo spettro che continua ad aggirarsi per l’Europa, e a turbare i sonni dei responsabili della politica monetaria continentale, non è più quello del comunismo, di cui teorizzò Karl Marx nel 1848 nel suo “Manifesto del Partito Comunista”.
Lo spettro è ancora, ahimè, quello dell’inflazione, e i sonni turbati sono quelli in lingua tedesca. La Germania ha cicatrici storiche lasciate dalla grande inflazione degli anni ’30 del secolo scorso, al tempo della Repubblica di Weimar (quando un chilo di pane arrivò a costare qualche decina di milioni di marchi), e delle sue infauste conseguenze, prima fra tutte il nazismo.
Il decennio di follia collettiva che ne seguì, in effetti, fu probabilmente l’esperienza più tragica e feroce del pur tormentato Novecento del nostro continente. E’ quindi più che comprensibile che uno stato moderno, democratico e sviluppato si proponga in tutti i modi di evitare per il futuro una deriva del genere, tanto da far indicare nel controllo del livello dei prezzi il primario obiettivo della Banca Centrale Europea. Se tale impostazione è comprensibile, tuttavia – alla luce dell’evoluzione dei moderni sistemi economici – è difficilmente condivisibile.
In primo luogo perché l’inflazione, lungi dall’essere ormai un pericolo, è oggi considerata un utile lubrificante e acceleratore delle politiche di sviluppo e di occupazione. In secondo luogo perché, portando le autorità monetarie a mantenere più possibili stabili i tassi di interesse e la quantità di moneta , impedisce loro – di fatto – di svolgere un’azione di sostegno ed espansione allo sviluppo nei momenti di crisi, come l’attuale post-Covid.
Il background teorico e ideologico alla base di tale impostazione restrittiva, sebbene goda ancora di ampio successo e diffusione negli ambienti e nei programmi accademici, è in realtà superato e smentito dai fatti. Vediamo perché.
COSA E’ L’INFLAZIONE
Per inflazione si intende un aumento generalizzato del livello dei prezzi di beni e servizi. Ne abbiamo parlato a più riprese nel sito, basti qui ricordare che tale fenomeno ha come primario effetto quello di redistribuire la ricchezza penalizzando i creditori (cioè i detentori di attività finanziarie come denaro liquido, titoli e così via) a vantaggio dei debitori. Inoltre rende consigliabile, al fine di mantenere il valore del patrimonio, investire in attività reali e fisiche (immobili, oro, aziende, azioni) piuttosto che in attività finanziarie.
Per questo l’inflazione era vista come un cancro che corrodeva e polverizzava i patrimoni, e riduceva il potere d’acquisto dei salari che non avessero adeguati meccanismi di indicizzazione, cioè che crescessero automaticamente o quasi al crescere dell’inflazione, sul tipo della “scala mobile” che i lettori ultraquarantenni ricorderanno.
DA MALATTIA DEL SISTEMA A ELEMENTO NECESSARIO
Sono ormai decenni che l’inflazione ha cessato di rappresentare un problema, e diversi anni che un suo livello minimale è invece considerato obiettivo di politica economica. In generale, il 2% di inflazione annua è ormai visto da tutti come un elemento necessario per il buon funzionamento dei sistemi: agevola l’occupazione, lubrifica gli scambi, favorisce un ambiente efficiente e funzionale.
Il problema è che quasi nessun sistema, fra quelli più avanzati, riesce oggi a raggiungere il famigerato 2%: tutti si fermano al di sotto, in alcuni casi sono al contrario afflitti dal male opposto, quello della deflazione. Se i prezzi calano in modo generalizzato, l’economia è di fatto bloccata, in fase di stagnazione, il lavoro diminuisce e la società arretra. I soliti lettori ultraquarantenni (che ricordano i danni dell’inflazione a doppia cifra) faticheranno non poco a capire il Presidente della FED (la banca centrale USA) quando afferma con disappunto che siamo lontani dall’obiettivo del 2%, nel senso che non siamo neanche all’1... .
Ma tant’è. Con un deciso salto, la stessa FED ha deciso di modificare la strategia sull’inflazione: il 2% non più come target annuale, ma come obiettivo medio a cui tendere in un orizzonte pluriennale. Quel livello è ora considerato troppo basso, è necessario far crescere i prezzi in misura maggiore per avere più occupazione. Per cui non ci stupiremo se già dal prossimo anno e almeno per tutto il 2022 la potenza di fuoco di Jerome Powell (il Presidente della FED) verrà indirizzata a portare l’inflazione al 3%.
TASSI E INFLAZIONE SONO ORMAI INDIPENDENTI
Molti dei dogmi in materia di tassi di interesse che ci sono stati insegnati, e che ancora tengono banco fra gli accademici, sono stati superati dai fatti.
Il più importante è la relazione fra variazione dei tassi e variazione del PIL. Sapevamo che abbassando il livello dei tassi venivano favoriti gli investimenti e il PIL (il reddito complessivo del paese) sarebbe cresciuto, come pure l’inflazione per effetto della maggior domanda. Abbiamo visto invece tassi a zero o anche negativi per lungo tempo (ad esempio in Giappone) senza apprezzabili effetti né sul prodotto interno né sul livello dei prezzi.
Vale invece il contrario: pur in una situazione recessiva, se i tassi vengono mantenuti alti, o quanto meno non diminuiscono, la crisi si aggrava e a quella economica si aggiunge la crisi monetaria a causa delle politiche restrittive, come è accaduto nel 2007 e 2008 con la grande crisi iniziata con il fallimento di Lehman Brothers.
Per questo, anche se scarsamente efficienti per favorire la ripresa, le politiche di tassi bassi ed espansione della quantità di moneta sono indispensabili per fornire linfa di sopravvivenza e risorse finanziarie a sistemi che altrimenti rischiano di implodere. Le economie inondate di liquidità hanno miglior capacità di reagire, come è stato del tutto evidente con le politiche adottate per combattere gli effetti economici della pandemia. Sia in Europa che in USA, grazie alla pronta reazione di BCE e FED, il crollo verticale dei mercati e del PIL è stato per ora contenuto in un trimestre e auspicabilmente verrà del tutto recuperato entro il prossimo anno[1].
In Europa, ad esempio, nel secondo trimestre 2020 il PIL è diminuito dell’11,8% sul periodo precedente, e nonostante questo l’intero anno in corso dovrebbe presentare una riduzione dell’8%, ma già dal 2021 si assisterà a una crescita del 5% e nel 2022 del 3,2%. L’inflazione si attesterà invece allo 0,3% nel 2020, all’1% nel 2021 e all’1,3% nel 2022[2].
Nonostante l’opposizione dei “paesi frugali”, quindi, che continuano ad agitare lo spettro di un inesistente rischio di inflazione – oltre che, va detto, di un rispetto effettivo dei vincoli e dei limiti all’indebitamento - questa volta le istituzioni europee si sono dimostrate all’altezza della situazione.
[1] Si è parlato, a questo proposito, di “curva a V”, con una crescita rapida e intensa dopo il crollo; oppure di “curva a U”, in cui la ripresa avviene dopo un livello di consolidamento al minimo, anche se non è mancato chi ha previsto invece una “curva a L”...
[2] Dati presentati da Christine Lagarde, Presidente della BCE, e Luis de Guindos, Vicepresidente della BCE, nella conferenza stampa di Francoforte sul Meno del 10 settembre 2020
- Per commentare o rispondere, Accedi o registrati