HIC RHODUS HIC SALTUS
Investire il patrimonio è sempre più difficile. Una guida per orientarsi nel mese del risparmio, mai bistrattato come ora
Se parliamo spesso di America nel nostro sito non è per un (ormai non più di moda) senso di ammirazione per tutto quello che viene da oltre Atlantico o perché ci ostiniamo a ritenere gli Stati Uniti il migliore dei mondi possibili: siamo anzi fermamente convinti che nonostante tutto l’Italia sia il luogo dove si vive meglio al mondo. Le bellezze artistiche e naturali del nostro paese, la cultura antica che permea la nostra civiltà, il clima in genere temperato, il carattere aperto e cordiale della gente, non ultimo la cucina e le specialità enogastronomiche rendono tutto sommato molto piacevole la vita qui da noi.
Quello che proprio non funziona è il sistema finanziario e tutto quello che ruota intorno al risparmio, mettendo in difficoltà chi ricerca forme di investimento che consentano la salvaguardia del valore del proprio patrimonio e un reddito ragionevole. Il mondo che abbiamo conosciuto fino a una ventina di anni fa, è ormai superato; le certezze che avevamo si sono sostanzialmente disgregate, i rischi – ma anche le opportunità – si sono moltiplicati. Molte delle vecchie relazioni fra grandezze economiche e le funzioni che studiavamo all’università non sono più valide e vanno riviste, nuovi fenomeni vanno presi in considerazione.
Ma qui è Rodi, e da qui bisogna saltare, come diceva Esopo volendo indicare che, al di là dei racconti, quello che conta è la realtà effettiva in cui ci si trova, e che va affrontata come tale. E la realtà per l’investitore è piuttosto deprimente: marcata instabilità, situazione economica in affanno, tassi di interesse bassissimi, abbondanza di prodotti truffaldini o comunque poco trasparenti, vigilanza sui mercati inadeguata.
D’altra parte ci sono invece una serie di fattori positivi che pure incidono sul panorama, anche se in minor misura: appartenenza all’area Euro, bassa inflazione, abbondante liquidità del sistema e autorità monetarie reattive ed efficaci.
I cigni neri, eventi negativi talmente rari da essere considerati fortemente improbabili e la cui eventualità è trascurata dalle analisi degli esperti, tendono in realtà ad acquisire una certa frequenza. Negli ultimi anni ne abbiamo avuti almeno due: il calo contemporaneo dei valori delle attività finanziarie pressoché ovunque (con la sola eccezione dell’azionario USA e di quello indiano) del 2018, con una congiunzione che non si verificava dal 1901; e soprattutto la pandemia da coronavirus iniziata nel marzo di quest’anno e ancora lungi dall’essere risolta.
La globalizzazione ha poi reso fortemente interdipendenti i mercati l’uno dall’altro e in molti casi eccessivamente sensibili a dichiarazioni di importanti esponenti politici o finanziari, come il Presidente degli Stati Uniti, della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea e così via. In tale contesto, ha assunto forte rilevanza per i mercati la dinamica dei rapporti politici e commerciali fra i due giganti economici del pianeta, USA e Cina, dopo che l’attuale inquilino della Casa Bianca ha messo in discussione con grande enfasi i rapporti di forza e di scambio fra le due potenze.
I mercati finanziari del nostro paese, strutturalmente deboli, sono spesso alla mercé dei mercati più importanti, trascinati dagli eventi che influiscono sui comportamenti dei grandi investitori. Se succede qualcosa che provoca, ad esempio, una diminuzione generalizzata delle azioni USA – supponiamo uno dei soliti tweet di Trump che minaccia fuoco e fiamme per la Cina, oppure una pubblicazione di dati sui contagi da Covid che si impennano – si può star quasi certi che anche le borse europee e, a maggior ragione, quella italiana, seguiranno il trend negativo, anche se magari il loro andamento era fino a quel punto in crescita.
In questo momento di tassi a zero se non negativi, i grandi investitori impiegano le loro risorse in gran parte sul mercato azionario, dove arriva prima o poi la liquidità che le banche centrali pompano nei sistemi. Poiché questa situazione dura da molto tempo, i listini USA (NYSE e NASDAQ) sono in crescita continua e i prezzi delle azioni (soprattutto quelle del comparto tecnologico) hanno raggiunto livelli spesso al di fuori da ogni logica economica.
Ogni tanto i prezzi crollano, perché gli investitori prudentemente incassano le plusvalenze realizzate. Una buona strategia di investimento deve infatti prevedere, ogni volta che si decide di effettuare un acquisto, l’obiettivo di rendimento che ci si propone e la massima perdita sostenibile; verificandosi il primo caso è prudente chiudere la posizione e incassare l’utile (operazione definita take profit), mentre se accade il secondo si deve comunque uscire vendendo il titolo, evitando di cadere nel baratro (operazione definita stop loss).
Nell caso di investitori professionali, take profit e stop loss vengono impostati fin dal primo momento e daranno luogo a vendite automatiche se i titoli raggiungono i rispettivi valori.
E’ quindi normale che dopo una lunga corsa quel titolo (o anche il listino nel suo complesso) “tiri il fiato” ovvero subisca un brusco calo, perché molti grandi investitori sono passati all’incasso. Nel caso delle azioni USA, poi, molti decidono di rientrare su quel titolo e le quotazioni salgono di nuovo.
Le flessioni che sono avvenute sporadicamente in questi mercati sono state finora pause fisiologiche, all’interno di un trend in solida ascesa. E’ però evidente che se i titoli iniziano a perdere in modo significativo e prolungato, i diversi meccanismi di stop loss impostati dalle “mani forti” in modo automatico funzionano da formidabili acceleratori del tracollo.
Per questo il rischio di restare su un mercato euforico è tipicamente molto alto. La festa prima o poi finisce, e si può star certi che il piccolo risparmiatore che non è riuscito a vendere in tempo, si farà molto male.
Un ulteriore fattore di rischio è l’andamento del cambio Euro/dollaro. Chi ha investito in dollari, supponiamo, al cambio di 1,12 oggi (che il cambio è intorno a 1,17) ha una perdita significativa che deve essere considerata (qualora volesse tornare all’Euro) come elemento di rettifica dell’eventuale plusvalenza realizzata sul titolo.
Per questo dicevamo Hic Rhodus, hic saltus: se il nostro investitore ha una bassa propensione al rischio e non se la sente di restare esposto allo scoppio della bolla o alla svalutazione del dollaro (eventi molto probabili anche se non ne è ipotizzabile il momento), potrà puntare sul mercato azionario Europeo, che ha corso molto meno rispetto a quello statunitense, oppure su titoli di stato a lungo termine, che danno però rendimenti raramente superiori al 3 o 4%.
Leggermente più alto il rendimento delle obbligazioni corporate[1], in particolare di quelle high yield, ma più alto anche il rischio legato alla minor solidità degli emittenti.
In ogni caso si tratta di rendimenti che, al netto dell’inflazione e delle tasse, sono comunque intorno all’1% reale netto.
Chi vuole tenere la liquidità dovrà invece mettere in conto di dover sostenere un costo perché anche se i tassi sono a zero (ma presto diventeranno negativi), le spese e commissioni bancarie e l’inflazione determinano già oggi un rendimento negativo.
Tempi duri per i risparmiatori.
[1] Si definiscono corporate le obbligazioni emesse da grandi società industriali, commerciali o finanziarie, che vengono in genere distinte in Investment Grade (IG), e High Yield (HI). Le prime hanno un maggior livello di affidabilità, con rating maggiori o uguali a BBB, le seconde sono di tipo speculativo e offrono rendimenti maggiori, a fronte del maggior rischio.
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