CI SARA’ PURE UN GIUDICE A BERLINO?
Quando sono coinvolti personaggi noti i veri processi, senza appello, si celebrano a mezzo stampa
Per la verità un giudice c’era non solo a Berlino al tempo di Federico il Grande di Prussia (fine del XIX secolo), ma c’è anche nell’Italia di oggi. Alla fine, ma solo alla fine, qualcuno che rimette le cose a posto si trova. Il problema è che, dalle nostre parti, i veri processi – implacabili e senza appello – si celebrano a mezzo stampa non appena emessi gli avvisi di garanzia, talvolta anche prima. Soprattutto nel caso di personaggi in vista, ma anche se ricorrono ipotesi di reato in grado di solleticare l’interesse del pubblico.
Il giudice di Berlino, che poi era lo stesso Federico II, non solo dette ragione al mugnaio Arnold di Sans Souci nella controversia col barone Von Gersdorf, ma lo fece in meno di otto mesi, per la precisione dal 1° maggio 1779 (data in cui il mugnaio presentò il ricorso) all’8 dicembre dello stesso anno[1].
Da allora, il modo di dire “ci sarà pure un giudice a Berlino” è passato ad indicare la malcelata speranza che, nonostante l’accanimento che talvolta sembra di subire, alla fine il sistema renderà giustizia, dovessimo andare fino al vertice dell’ordinamento.
Tutto sommato anche da noi, come si diceva, molto spesso “la giustizia trionfa”. Citofonare Calogero Mannino, ad esempio, che dal 1991 (quando entrò nel tritacarne mediatico-giudiziario con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa) è stato definitivamente prosciolto solo nel 2020. Oppure don Antonio Bassolino (a nostro avviso il più grande sindaco di Napoli, avendola risollevata dal degrado in cui era caduta), che 2003 ricevette un esposto-denuncia dal senatore di Rifondazione Comunista Sodano e fino al 2020 è rimasto in attesa che terminasse il processo.
Si potrebbero fare tanti altri nomi, da Fabio Riva a Maurizio Venafro, da Nunzia di Girolamo a Marco Tronchetti Provera[2], oppure ricordare l’eclatante vicenda di “Mani pulite” o “Tangentopoli” in cui ai numerosissimi avvisi di garanzia e correlata gogna mediatica, hanno fatto riscontro pochissime condanne in giudizio, oltre a qualche suicidio.
E’ vero che fa molto più rumore un albero che cade che non un’intera foresta che cresce, ma è altrettanto vero che una volta partito l’avviso di garanzia, lo sfortunato percipiente si trova esposto alla pubblica riprovazione, tanto più in un mondo in cui i social network amplificano e rilanciano ciò che parla alla pancia degli utenti.
I mass media, naturalmente, fanno il loro mestiere e scrivono ciò di cui la gente vuole sapere. Anche i Sostituti Procuratori, naturalmente, fanno il loro mestiere ed essendo obbligati ad esercitare l’azione penale, ogni volta che incrociano la notizia di un reato devono indagare e, ogni volta che aprono un fascicolo – a tutela dell’indagato, ça va sans dire – devono mandare l’avviso di garanzia.
Tuttavia c’è modo e modo.
I giornali potrebbero evitare di sbattere il mostro in prima pagina, dare spazio anche alle ragioni degli accusati e, almeno, dare lo stesso risalto alla notizia dell’assoluzione o del proscioglimento anche se molto meno sexy per i lettori.
Le Procure – almeno alcune Procure, in genere quelle più popolari - da parte loro, potrebbero evitare di cedere alle lusinghe della ribalta, apparire un po’ meno in tv e rilasciare meno interviste. Quanto meno potrebbero vigilare affinché non ci siano fughe di informazioni riservate e gli interessati apprendano da loro, anziché dai giornali, le notizie che li riguardano.
In fin dei conti, secondo la Costituzione, vige la presunzione di innocenza fino a che un giudice non emetta una sentenza di condanna o, meglio, fino alla condanna definitiva.
Vedere il proprio nome sparato sui titoli dei giornali, leggere i resoconti di intercettazioni alle proprie utenze telefoniche, vedersi respinte banali richieste di apertura di conti bancari: la vita dell’indagato non è certo piacevole. E questo è solo il “contorno”, perché in effetti la situazione deve comunque essere gestita a livello legale e questo comporta una costante pressione psicologica, oltre che spese rilevanti.
Un noto personaggio, di quelli abituati a gestire situazioni complesse e che si ritrovò appunto indagato con grande clamore e poi prosciolto, ebbe a dirci una volta che, quando si è sotto indagine o sotto processo, questa diventa una vera e propria ossessione, un incubo che ci accompagna dal risveglio la mattina fino a che, if even, ci si addormenta.
Per chi ha la serena consapevolezza di essere estraneo alle accuse, è ben difficile aspettare tranquillamente che la giustizia faccia il suo corso, anche perché magari nel frattempo la sua carriera è finita. E quando, alla fine, ma molto alla fine, l’incubo finisce, è veramente desolante non trovare sui giornali neanche una riga sull’avvenuta assoluzione.
Come risolvere il problema? Forse non è possibile, ma alcuni correttivi per evitare almeno le distorsioni peggiori possono essere applicati.
In primo luogo, a dispetto della sciagurata proposta di riforma della giustizia del Movimento 5 Stelle, sarebbe un grande errore eliminare dall’ordinamento l’istituto della prescrizione. Il fine processo mai sarebbe veramente ingiusto e intollerabile.
Inoltre andrebbero rafforzate tutte le forme di garanzia per limitare gli abusi delle intercettazioni telefoniche, che spesso esauriscono l’attività investigativa degli inquirenti essendo veloci, sicure e poco impegnative. Ma spesso anche fuorvianti, poiché è estremamente facile, con affermazioni prese fuori contesto, costruire ipotesi accusatorie anche senza fondamento.
Infine, rendere più incisiva la disciplina della responsabilità per gli errori giudiziari che quanto meno possa essere un deterrente per evitare le più macroscopiche distorsioni.
Tempi lunghi dei processi e gogna mediatica sono grandi nemici della giustizia, quella vera e non quella dei tribunali.
[1] La vicenda, ripresa da Bertolt Brecht a cui se ne deve la popolarità, venne raccontata da Enrico Broglio nel 1880 in “Il Regno di Federico di Prussia detto il Grande”.
[2] Si veda, per un dettagliato esame dei casi qui menzionati e di altri analoghi, il bellissimo editoriale di Claudio Cerasa sul Foglio del 27/12/2020 (“Viva il D-day dei vaccini. E ora pensiamo al virus della gogna mediatica”).
- Per commentare o rispondere, Accedi o registrati