SOLO POSTI IN PIEDI
L’episodio di Ankara uno schiaffo all’educazione ma soprattutto all’Europa
La scena di due brutti ceffi seduti al centro e di una gentile signora alla quale era stato riservato solo uno strapuntino laterale ha un che di sinistro, sguaiato e inquietante, per il significato politico, ma più ancora simbolico.
Ci riferiamo, naturalmente, al recente meeting di Ankara, in cui il sultano turco Recep Tayyip Erdogan ha ricevuto il Presidente del Consiglio europeo di turno, il belga Charles Michel e la Presidente della Commissione UE Ursula Von Der Leyen. I maschietti comodamente seduti e Ursula, interdetta e anche incredula, in piedi chiedendosi dove fosse il suo posto.
Il turco (definito “dittatore” dal Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi), di stretta osservanza musulmana, non concepisce di dover trattare da pari a pari con una donna, che per la sua cultura deve comunque stare almeno un gradino sotto.
Il belga, da parte sua, non ha mosso ciglio in quanto convinto – neanche del tutto a ragione - che il suo rango gerarchico, superiore a quello della Presidente della Commissione, gli permettesse comunque di lasciare in piedi Ursula, con buona pace di quel minimo di educazione che sarebbe stata necessaria.
Ursula, da parte sua, ha dovuto necessariamente far buon viso a cattivo gioco evitando di enfatizzare l’imbarazzo che non era tanto di genere (come donna) quanto istituzionale, come rappresentante di un’alta Istituzione comunitaria messa alla berlina da un rozzo politico di quart’ordine.
Iniziamo intanto col dire che la Turchia è un grande paese, con una storia importante e un ruolo fondamentale nello scacchiere geo-politico ed economico eurasiatico. La tradizione culturale è quella di un popolo laico, con notevole apertura intellettuale verso l’Occidente e, in particolare, verso gli Stati Uniti e l’Europa: la collocazione atlantica, fino a pochi anni fa, non è mai stata in discussione, tanto che il paese è sempre stato uno dei capisaldi della NATO.
I più brillanti giovani turchi di quella generazione si sono formati nelle università americane e inglesi e hanno ampiamente assimilato i fondamenti dei sistemi democratici occidentali. Ma anche in precedenza i rapporti di Istanbul con l’Occidente erano intensi e gli investimenti esteri sempre molto elevati. Fino alla fine del secolo scorso, la Turchia cresceva a un ritmo stabilmente superiore alla doppia cifra, la sua moneta era stabile ed aveva potenzialità di ulteriore sviluppo veramente interessante per gli investitori, che ne apprezzavano la disponibilità di materie prime e di forza lavoro abbondante, non inquadrata sindacalmente ma disciplinata (discendendo dallo stato militare di Ataturk) e qualificata.
La situazione è del tutto cambiata con l’ascesa al potere di Erdogan, che, dapprima debolmente poi sempre più marcatamente, ha avvicinato il paese all’integralismo islamico. Gradualmente sono state eliminate le garanzie democratiche e l’opposizione è stata fisicamente soppressa, anche attraverso la farsa di un colpo di stato inventato da parte del sovrano per giustificare l’inasprimento della repressione.
Negli anni ’90 del secolo scorso il principale obiettivo politico della Turchia era l’ingresso a pieno titolo nell’Unione Europea, visto con favore da paesi importanti come Germania (la quale ha storicamente accolto nei propri confini moltissimi emigranti turchi, ormai pienamente integrati nel sistema tedesco), Italia e Spagna, ma fieramente avversato dai francesi.
Per i transalpini era inaccettabile che potesse entrare in Europa uno Stato nel cui ordinamento fosse ancora prevista la pena di morte. I turchi replicavano che la loro costituzione la prevede solo in caso di guerra e che comunque – fino all’avvento di Erdogan – non era stata applicata da molti anni.
Naturalmente le posizioni politiche molto spesso nascondono interessi economici evidenti, magari meno confessabili. Resta comunque il fatto che nel precedente regime l’Europa rappresentava il miraggio dei turchi e l’obiettivo della loro diplomazia, così come lo è stato per molti paesi dell’Est Europa (Romania, Bulgaria, Croazia), ivi inclusi quelli non (ancora) entrati, come l’Ucraina.
Con Erdogan il panorama cambia drasticamente: è cresciuta l’insofferenza dei turchi per le sempre più frequenti critiche al regime dittatoriale da parte degli europei. Si è preferito monetizzare la posizione strategica piuttosto che impostare una politica di alleanza strutturale, sia attraverso interscambi commerciali unilaterali che, ad esempio, negoziando il freno ai flussi migratori.
D’altra parte, Ankara è divenuta sempre più sensibile al fascino della Russia, forse anche per una maggiore consonanza e intesa personale con Putin rispetto alla burocrazia diffusa di Bruxelles.
Il risultato di questa “rivoluzione copernicana” si è visto chiaramente in Libia e nel Mediterraneo, dove la presenza militare (diretta o di supporto) è divenuta sempre più consistente e ingombrante e sicuramente in funzione di contrasto con gli obiettivi comunitari.
Per questo l’Europa ha aperto un tavolo negoziale molto faticoso con la Turchia, sia per allentare le tensioni ai propri confini, sia per confermare o rivedere l’accordo sui migranti, che ora è decaduto. In questo senso si spiega l’affermazione di Mario Draghi per cui “con i dittatori bisogna comunque parlare”, un po’ meno – invece - l’atteggiamento timoroso di Charles Michel che, per non irritare il sultano, non ha esitato a lasciare in piedi la Presidente della Commissione UE.
E’ evidente come la diplomazia europea debba recuperare, se non la propria dignità, quanto meno la capacità di impostare una politica estera decisa e coesa, anziché andare in ordine sparso come ha fatto finora, a tutto vantaggio delle forze esogene che mirano alla sua divisione.
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