ECONOMIA DI GUERRA
Inflazione e recessione: i regali della guerra all’economia
Non sarà breve, né facile, né senza conseguenze, per cui bisogna esserci preparati. Anche se non ce lo dicono, siamo nel pieno di un’economia di guerra; vediamo quali sono le caratteristiche di una tale situazione.
È vero che, almeno per ora, le vicende belliche non ci coinvolgono direttamente come partecipanti al conflitto: dopo la seconda guerra mondiale, questo è accaduto solo con la guerra del Kosovo negli anni ‘90, quando capo del governo era Massimo D’Alema. Tuttavia, viviamo in un mondo fortemente globalizzato, in mercati tendenzialmente aperti e soprattutto siamo stabilmente inseriti nel contesto dell’Unione Europea, la quale – anche se ancora non l’ha fatto – dovrà necessariamente farsi carico della soluzione del conflitto, della gestione dei flussi di profughi e, in seguito, degli sforzi di ricostruzione.
Inoltre, una serie di eventi nella direzione dell’economia di guerra era già in corso sia in seguito alla pandemia da coronavirus, sia per cause endogene, più o meno congiunturali. Come dire: piove sul bagnato.
Si tratta, in ordine di importanza, di inflazione, rischio di recessione e difficoltà di approvvigionamento di materie prime e semilavorati. I tre fattori sono naturalmente interconnessi, ma in tempo di guerra assumono andamenti del tutto particolari. Ad esempio, inflazione e recessione in genere hanno una correlazione inversa, nel senso che l’alta inflazione normalmente si accompagna a un buon ritmo di sviluppo dei sistemi economici e, anzi, è proprio questo surriscaldamento – che produce eccesso di domanda – a moltiplicare e accelerare l’inflazione stessa.
In questa fase, invece, il rischio effettivo è quello della stagflazione, un anomalo e molto pericoloso connubio fra prezzi alti e sistemi produttivi in affanno. A maggior ragione se uno dei paesi belligeranti, in questo caso la Russia, è anche grande esportatore di materie prime, in particolare quelle energetiche. Ciò comporta, almeno in una prima fase che è quella in cui ci troviamo, che gas e petrolio aumentano di prezzo, sono difficili da reperire e la loro carenza rischia di mettere in difficoltà molti produttori e obbliga tutti i paesi a rivedere in senso negativo le stime del PIL.
Viene quasi da sorridere pensando che solo qualche mese fa eminenti economisti e uffici studi ci volevano far credere che l’inflazione fosse transitoria, che il suo picco fosse già stato raggiunto e che fossimo al 5%. In realtà gli Stati Uniti hanno un livello ormai conclamato del 7,5%, mentre in Europa il 5% è palesemente sottostimato.
Chiunque viva nel mondo reale, e non nei salotti ovattati dell’informazione di regime (molto attiva, peraltro, anche sul fronte del virus e della guerra), avverte con chiarezza che già oggi siamo ben oltre il 10%, con picchi – nel comparto energetico – di circa il 100%. E la guerra non è ancora entrata nella sua fase più violenta, anche se bisogna dire che in economia molto accade in virtù delle aspettative, che influenzano i comportamenti.
In una fase come questa, i due principali protagonisti della politica economica (Governo e banche centrali) hanno obiettivi contrastanti e dispongono di strumenti che per fronteggiare uno dei punti critici sul tavolo provocano conseguenze negative per gli altri aspetti.
L’inflazione è un problema, un grosso problema, per le banche centrali e per i risparmiatori; la recessione colpisce i lavoratori, le imprese e preoccupa quindi molti Governi. Nel primo caso gli strumenti impiegati da Fed, BCE e colleghi sono soprattutto l’aumento dei tassi di interesse e la riduzione della liquidità; nel secondo caso i Governi possono manovrare la spesa pubblica e il deficit di bilancio. Come si vede, gli strumenti disponibili nel primo campo di gara sono tali da frenare lo sviluppo e indurre recessione e disoccupazione; gli strumenti del secondo campo sono invece fomentatori di inflazione.
La carenza di approvvigionamenti e disponibilità di materie prime è invece un aspetto che danneggia tutti quanti ma – ahimè – nessuno ha strumenti idonei in grado di porvi rimedio, se non nel lungo o lunghissimo periodo. Trovare materie prime alternative o nuovi mercati richiede tempo, fatica e risorse; costruire o rafforzare un settore economico di semiconduttori idem.
Detta così, sembra una mission impossible e, forse, lo è davvero. In passato tutte le guerre hanno prodotto grande inflazione, necessità di ricostruire e quindi domanda sostenuta. Grazie a questo, le banche centrali potevano attuare senza particolari patemi le necessarie politiche monetarie di contenimento, dopo che il valore reale del debito pubblico – cresciuto a dismisura per finanziare la guerra – era stato ampiamente ridimensionato. In alcuni casi la crisi provocata dalla grande inflazione ha portato disastri planetari come il diffondersi dell’ideologia nazista nella Repubblica di Weimar al termine della grande guerra 1915-18; in altri invece si sono avuti lunghi periodi di sviluppo e di benessere, come nel caso del miracolo economico in Italia.
Cosa succederà questa volta è difficile da prevedere. Certo è che con l’inflazione dovremo convivere per un bel po’ e che il drenaggio di liquidità già avviato dalle banche centrali (il cosiddetto quantitative tightening) ridurrà le risorse finanziarie in circolazione nel sistema che fino ad ora erano affluite copiose sui mercati finanziari.
Per gli investitori comincerà un periodo difficile: il valore reale dei patrimoni finanziari tenderà a diminuire, i mercati borsistici – che in verità hanno retto più che dignitosamente ai rumori della guerra – sono destinati a soffrire, dopo gli exploit degli ultimi due anni. Il costo del credito tenderà ad aumentare e, d’altra parte, mantenere il denaro in forma liquida sarà sempre più azzardato e costoso.
È quindi tempo di rivedere le strategie di investimento e di porre particolare attenzione alla prudenza. L’investimento in azioni sarà sempre il motore del portafoglio, ma occorre scegliere con molta cautela i titoli su cui investire e magari pensare a qualche strumento di protezione, attraverso derivati o opzioni. Per l’obbligazionario non è ancora il momento e nel caso saranno da considerare solo i titoli a tasso variabile.
Sarà necessario prendere in esame soprattutto gli investimenti in quegli asset in grado di difendere il valore reale dall’inflazione, tipicamente gli immobili – i cui prezzi non a caso hanno cominciato a salire in modo molto deciso – e i metalli preziosi, ma anche le materie prime. Una buona idea potrebbe essere quella di diversificare il rischio valutario aumentando con gradualità l’esposizione in dollari, franchi svizzeri e sterline.
E soprattutto speriamo che tutto questo finisca il prima possibile.
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