LA CASA IN CINA SCRICCHIOLA MA NON CROLLA
La crisi del gigante immobiliare cinese Evergrande minaccia i mercati
Il default del gigante cinese del real estate Evergrande – peraltro annunciato da almeno un paio d’anni – ha innescato sui mercati finanziari mondiali timori magari comprensibili ma sicuramente esagerati. Lo spettro della crisi globale del 2007/2008 (quella, per intendersi, che portò al fallimento di Lehman Brothers) ha terrorizzato gli operatori, già alle prese con i timori di una recessione fino ad ora solo rimandata e colpiti da politiche monetarie recessive con tassi in rapida ascesa.
La domanda che tutti si fanno è: sarà l’inizio di un nuovo tsunami che rischia di travolgere sistemi già indeboliti da pandemia e guerre? Oppure si tratta di una fase critica del ciclo, magari più profonda del normale, ma tutto sommato temporanea, da riassorbire normalmente? Probabilmente nessuno dei due estremi: la realtà dovrebbe trovarsi a metà strada; a questo stadio, tuttavia, non è possibile fare previsioni sicure, anche perché il nostro grado di conoscenza delle cose cinesi è oggettivamente piuttosto modesto.
Appare intanto evidente che il momento di difficoltà del real estate in Cina è ormai prolungato, di portata rilevante e di consistenza innegabile. Sono ormai almeno due anni che il gigante Evergrande è stretto nella morsa di un debito ingovernabile ed è chiaro che il governo non ha dispiegato i suoi potenti mezzi per correre in suo soccorso - ed è molto difficile che lo faccia ora - lasciando la Società al suo destino di mercato.
Il settore immobiliare in Cina costituisce una parte importante del sistema economico, stimabile intorno al 30% del PIL nazionale, e sicuramente superiore a quella dei sistemi occidentali. A sua volta Evergrande rappresenta uno dei maggiori operatori di questo comparto, con ampie e ramificate connessioni in tutta l’economia del paese. Le probabilità che si verifichi un effetto domino da quell’operatore in crisi a tutta l’economia della regione asiatica sono quindi oggettivamente reali.
Ma da qui a preconizzare una nuova stagione dei subprime e di Lehman Brothers ce ne corre.
La consecutio temporis di una crisi finanziaria globale che nasce dal settore immobiliare del Celeste Impero potrebbe essere immaginata così: il real estate come si è visto è magna pars dell’economia cinese. La crisi di questo settore determina il crollo dei valori degli asset (case, uffici, centri direzionali e così via), abbattendo i patrimoni di chi aveva investito nel mattone e quindi la loro capacità di credito presso il sistema bancario. Da un lato, quindi, un “effetto ricchezza” negativo che riduce la propensione alla spesa degli investitori; dall’altro le difficoltà delle imprese del settore che mettono a rischio i portafogli prestiti delle banche, e quindi la loro solidità sul mercato. Da qui al crollo della domanda per beni e servizi e dei valori di borsa delle società finanziarie, il passo è breve. Dal mercato cinese, per effetto dei rapporti finanziari e di interscambio con investitori, fornitori e clienti di tutti gli altri paesi, il contagio si diffonde così in tutto il mondo e diventa virale.
Lungo le fasi di questa strada verso il baratro, è molto probabile che la fiducia di consumatori, dei risparmiatori e degli investitori subisca un vero e proprio crollo, con prevedibile influenza sui loro comportamenti economici, tale da consigliare prudenza se non immobilismo.
Se questo è il percorso plausibile affinché una crisi settoriale in un solo paese produca un effetto valanga trasformandosi in una catastrofe finanziaria globale, si tratta allora di vedere quali sono i passaggi chiave dove il processo potrebbe ragionevolmente arrestarsi.
Intanto è richiesta una forte interconnessione fra il sistema cinese e le economie sviluppate del mondo occidentale, come avvenne per il mercato finanziario USA nel 2007. Sicuramente i rapporti fra il Celeste impero e capitalismo sono stretti, in particolare con Stati Uniti e Germania. Con i primi l’interscambio ha raggiunto lo scorso anno la cifra record di 690 miliardi di dollari e per la seconda Pechino è il maggior partner commerciale e i suoi investimenti in Cina hanno raggiunto i 114 miliardi di Euro.
Gli interessi di gruppi importanti come Tesla, Microsoft, General Motors, Goldman Sachs, JP Morgan, Intel o Apple per gli USA; oppure di Volkswagen, BMW e Mercedes, Basf e Siemens per la Germania sono consistenti e consolidati, e i rapporti commerciali fra questi paesi e la Cina sono stretti.
Ma certo i rapporti politici e istituzionali fra gli Stati Uniti e Cina stanno attraversando una fase di raffreddamento e forte diffidenza reciproca, alimentata dalla guerra in corso fra Russia e Ucraina (per la quale la grande potenza asiatica mantiene una sorta di aurea neutralità) e soprattutto dalle vicende di Taiwan, che rischiano di aprire un contenzioso anche militare. D’altra parte, anche per l’Europa, la quale non ha una posizione comune nei confronti della Cina, le ombre sono senz’altro più forti delle luci.
Sono già in vigore alcune sanzioni che impediscono forniture cinesi per la produzione negli USA di microchips e semiconduttori ad uso militare e restrizioni per l’utilizzo del social made in China TikTok. Difficile pensare che in caso di crisi conclamata i governi occidentali non colgano l’occasione per inasprire le sanzioni e rendere ancora più difficili contatti e interdipendenze fra giganti nazionali ed economia cinese.
Soprattutto, però, l’esperienza del passato dovrebbe aver insegnato ai banchieri centrali a fronteggiare crisi sistemiche ed evitare gli errori che vennero commessi nel 2007, quando venne deciso di lasciar correre il mercato e non sostenere il sistema finanziario in palese difficoltà. Con la pandemia è risultata evidente la disponibilità di strumenti di sostegno molto efficaci per l’economia. E in effetti la banca centrale cinese in avvio di settimana ha già ridotto, sia pure per ora frazionalmente e meno del previsto, il livello dei tassi di interesse.
In definitiva, la crisi immobiliare in Cina non è da sottovalutare, sicuramente avrà un seguito, trascinando altri operatori nella bufera e molto probabilmente avrà effetti anche su altri settori dell’economia cinese, riducendo le prospettive che per l’anno in corso attestano il PIL nazionale in crescita del 5%. Tuttavia, è ben difficile ipotizzare un effetto a valanga su tutte le economie mondiali, come avvenne nel 2007.
A rendere questa eventualità improbabile sono, infatti, il grado di interconnessione fra l’economia cinese e quelle del resto del mondo e, soprattutto, le potenzialità di intervento delle banche centrali. A meno che queste, perseverando nell’errore, non diventino diaboliche.
Commenti
La verità è che il governo non può farla fallire e lasciarl alle regole di mercato altrimenti sarebbe un sistema capita sta ciò che Xi non vuole mostrare, ma organizzeranno un atterraggio morbido o di fortuna attraverso schemi finanziari, ciò che dobbiamo chiederci e che lo yuan dovrà svalutare ciò che succede quando un settore che copre il 30% crolla, inevitabile come il crollo del rublo.
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