IL LAVORO AUMENTA MA I LAVORATORI STANNO PEGGIO
Il mercato del lavoro cresce, ma il problema è quello demografico e il peggioramento del potere d’acquisto
In occasione della ricorrenza ormai vintage del primo maggio appena trascorsa, che per le generazioni con i capelli nelle diverse sfumature di grigio esercita sempre un certo fascino, proviamo a fare il punto sul lavoro in Italia oggi.
Le statistiche, sia quelle più o meno governative sia quelle dell’Istat e degli istituti di ricerca (ci ritorniamo), ci dicono che la disoccupazione è in lenta ma decisa diminuzione e che le retribuzioni sono in crescita, anche se non tengono il passo con l’inflazione; i sindacati – ormai in parabola nettamente discendente nelle fabbriche ma con sempre maggiore visibilità in tv e nelle istituzioni – strepitano che i contratti sono sempre più precari e i lavoratori stanno sempre peggio. Chi avrà ragione? Forse entrambi, e si tratta solo di due facce diverse della stessa medaglia; forse la verità sta in mezzo; forse non lo sanno neanche loro e bisognerebbe chiederlo ai lavoratori.
Cominciamo dall’inizio.
L’Italia ha un mercato del lavoro forte come non mai: gli occupati sono arrivati alla cifra record di 23,8 milioni, con un tasso di occupazione al 62 per cento. Secondo i dati di febbraio 2024, gli ultimi disponibili, su base annua c’è stato un aumento degli occupati di 350 mila unità. E questo incremento è più che integralmente dovuto all’aumento dei contratti a tempo indeterminato: i dipendenti permanenti, infatti, in un anno sono cresciuti di 600 mila unità. Mentre i dipendenti a termine, i cosiddetti “precari”, sono diminuiti di 200 mila unità, così come sono diminuiti gli occupati indipendenti di circa 50 mila unità.
Ad allarmare sono piuttosto i dati demografici: l’aumento dell’occupazione è in gran parte determinato da occupati over 64 (raddoppiati tra il 2008 e il 2022, passando da 380 mila a 733 mila) e l’età media degli occupati è aumentata (gli over 50, infatti, sono il 40% del totale). Sul lungo periodo il problema demografico rischia poi di peggiorare: le previsioni al 2042 prevedono un calo di quasi 7 milioni di persone nella fascia di età 15-64 anni. La tenuta del sistema pensionistico, già in netta difficoltà con il metodo retributivo che dal dopoguerra a una ventina di anni fa ha affossato i conti e le riserve dell’INPS, è seriamente compromessa. Ma questa, magari, è un’altra storia.
Dall’altra parte il sindacato, e in particolare il segretario della Cgil, continua a vedere un mondo diverso, a parlare di una precarietà dilagante, usando dati che considerano solo i nuovi rapporti di lavoro attivati invece della variazione netta. E che ha avviato una raccolta firme per promuovere quattro referendum per abolire il Jobs Act (ciò che ne resta) e la precarietà, quando è abbastanza evidente, almeno secondo la consecutio temporum e secondo la logica, che a valle della faticosa riforma del mercato del lavoro introdotta da Renzi, il nostro paese ha conosciuto un miglioramento quantitativo degli occupati quale non si era mai visto prima dai tempi del miracolo economico.
Quello che invece non va bene, oltre all’aspetto demografico, è il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti, che in questi tempi di grande inflazione, hanno visto indiscutibilmente peggiorare le loro condizioni di vita, subendo la più forte perdita di potere d’acquisto: meno 9 per cento nel terzo trimestre 2023 rispetto al 2019.
Non solo: i rinnovi contrattuali sono diventati sempre più lunghi e difficoltosi: dai 26,6 mesi dell’anno scorso ai 29 di quest’anno; e la maggior frequenza dei rinnovi, insieme ai meccanismi di scala mobile ormai desueti, è notoriamente proprio uno degli strumenti con cui i lavoratori possono tentare di recuperare la perdita del potere d’acquisto dovuta all’inflazione. Se solo i sindacati, anziché parlare con ministri e istituzioni, parlassero di più e meglio con i datori di lavoro, che alla fine sono i suoi interlocutori naturali, probabilmente la situazione migliorerebbe.
Parafrasando un noto adagio che voleva il convento povero ma i frati ricchi, potremmo dire che il sistema del lavoro è ricco, ma i lavoratori sono sempre più poveri. Bisogna riconoscere che – nonostante le accuse del sindacato, che però in questo caso non fa altro che il suo mestiere – il Governo ha fatto quello che ragionevolmente poteva per alleviare il disagio dei lavoratori. Lo scorso primo maggio, con il decreto Lavoro, venne effettuata una corposa decontribuzione (6-7 punti percentuali) e fu modificata la disciplina dei contratti di lavoro a termine. Un taglio del cuneo fiscale fino a 7 punti - peraltro superiore alle richieste del sindacato di pochi mesi prima – potrebbe essere definito un vero e proprio azzardo, con i conti pubblici che ci ritroviamo; ed è quasi sicuro che quest’anno non ce lo potremo permettere, grazie anche all’eredità del superbonus e del bonus facciate.
Quanto detto sopra riguarda però solo l’aspetto quantitativo e materiale del sistema lavoro oggi in Italia; per quanto concerne invece la qualità, il discorso è più complesso. Il mondo globalizzato, la net economy, lo smart working, la terziarizzazione del paese (sempre più orientato verso i servizi e sempre meno verso la manifattura) e tutto quello che caratterizza l’economia dei nostri tempi, hanno portato a una radicale trasformazione del modo di lavorare rispetto a quello di qualche decennio fa.
La fabbrica, con Cipputi, i suoi riti e le sue catene di montaggio, sta gradualmente scomparendo e l’inesorabile declino dei sindacati – che certo, come abbiamo visto, non hanno fatto niente per mantenersi in vita – ne è una rappresentazione evidente. Anche l’ufficio dei tempi di Fantozzi e del “bancario scoppiato troppo ben pagato” (come scandivano sempre i sindacati negli anni 80 del secolo scorso) si avvia a diventare un retaggio del passato.
Di questi cambiamenti abbiamo parlato in passato e continueremo a parlare; per il momento, continuiamo ancora a festeggiare serenamente il primo maggio.
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