UNA BORSA STRIMINZITA
Un mercato borsistico efficiente è condizione indispensabile per lo sviluppo e per l’attrazione dei capitali
Un sistema finanziario evoluto non può prescindere da una borsa efficiente, funzionale, con ampia e numerosa tipologia di titoli quotati, con scambi abbondanti e società in buona salute. La borsa risponde infatti a due diverse esigenze: a quella delle aziende di reperire risorse finanziarie a titolo di capitale (e non di prestito) e a quella degli investitori per completare, nella loro asset allocation, la categoria dell’azionario.
Anche nel caso in cui i risparmiatori scelgano di sottoscrivere quote di fondi comuni di investimento, il mercato borsistico è indispensabile per garantire l’operatività delle società di gestione; a maggior ragione se viene utilizzato lo stock picking, ovvero l’investimento diretto in singoli titoli azionari.
È stato detto, con ragione, che il sistema italiano sia “bancocentrico”, ovvero afflitto da un eccesso di intermediazione: le risorse passano dai risparmiatori agli utilizzatori non direttamente ma per il tramite degli intermediari finanziari, ovvero delle banche.
Le aziende di credito, infatti, trasformano la raccolta dai clienti in prestiti alle aziende: i depositi a breve termine o senza scadenza (prelevabili in qualsiasi momento) in prestiti a breve termine per finanziare il capitale circolante; quelli destinati a restare impiegati più a lungo in finanziamenti a medio e lungo termine per soddisfare il fabbisogno legato a investimenti in capitale immobilizzato e a fronte dello sviluppo di prodotto o di processo.
Anche l’attività degli intermediari è un elemento essenziale per l’efficienza di un sistema finanziario, ma non deve essere esclusiva o ampiamente preponderante come in Italia. Questo sia perché comporta maggiori costi (anche le banche devono essere pagate, e neanche poco), sia perché rende le aziende finanziariamente più fragili, con troppi debiti rispetto ai mezzi propri. I debiti costano mentre il capitale non richiede remunerazioni contrattuali, pur avendo anch’esso un costo implicito.
Gli imprenditori italiani soffrono invece di “nanismo”, sono pochi quelli fortemente capitalizzati e molti quelli troppo indebitati. Non aprire il proprio capitale ad investitori esterni è comodo, in quanto consente di mantenere il controllo delle società senza dotarle di capitale proprio, ma – in caso di fabbisogno per la crescita - aumentando i debiti. Da una parte gli imprenditori evitano di mettersi le mani in tasca (ammesso che siano piene) e dall’altra non sono costretti a confrontarsi con il mercato, perché attrarre nuovi azionisti significa convincerli della bontà dei loro progetti e mantenerli significa tenerli informati sull’andamento ed acquisirne il consenso.
Questo spiega perché da noi le imprese hanno generalmente dimensioni molto contenute e lo sviluppo industriale va spesso a rilento.
C’è però da dire che la borsa italiana è troppo piccola per funzionare decentemente: pochi i titoli quotati, perlopiù relativi a piccole e medie imprese, deboli gli scambi, molte le buone aziende che preferiscono “delistare” i loro titoli ovvero toglierli dal mercato magari per quotarli su altre borse.
I mali della nostra borsa sono antichi[1], risalgono quanto meno al tempo della funesta acquisizione da parte di London Stock Exchange. In precedenza, la società che gestiva il mercato era funzionale ed efficiente, il suo livello tecnologico era uno dei più avanzati e il comparto obbligazionistico era riconosciuto come uno dei migliori in Europa. Con l’acquisizione da parte degli inglesi è stata invece confinata in un ruolo residuale, gli investimenti ridotti al massimo e nessun interesse strategico. Nei primi anni 2000 ci fu anche un interessamento da parte di alcune fondazioni bancarie e di investitori istituzionali per rilevarle l’asset, che è di tutta evidenza di interesse nazionale, ma il tentativo non andò a buon fine, per l’opposizione dei dirigenti del tempo (compresi gli italiani) allettati da potenziali ma evanescenti investitori arabi.
Poi è arrivata la Brexit e alla fine Borsa Italiana è finita alla società francese di gestione Euronext, ad un prezzo di 4,4 miliardi di euro. E ora siamo, per la prima volta nella sua storia, allo sciopero degli addetti per la tutela dell’italianità e della governance, oltre che per questioni contrattuali e salariali.
La capitalizzazione del nostro mercato ammonta a poco più di 760 miliardi di Euro, una vera inezia se si confronta con quella di Parigi che supera i 3.100 miliardi; il controvalore degli scambi è diminuito dagli oltre 600 miliardi del 2107 ai 577 di oggi; il numero delle società quotate al listino principale da 237 alle attuali 223. In parziale controtendenza il settore delle PMI, che comunque capitalizza poco più di 8 miliardi.
Sempre negli ultimi 10 anni circa 100 società sono sparite dal listino principale (fra le quali Autogrill, Fiat, Cnh Industrial), per una capitalizzazione complessiva superiore ai 100 miliardi. Solo quest’anno i delisting già conclusi sono stati 22 (fra i quali Tod’s) e numerosi altri ne sono annunciati (ad esempio Saes Getters); e alcune grandi aziende nazionali di successo (Ferrero, Barilla) si guardano bene dall’accesso a Piazza Affari. Molte società che erano già pronte per la quotazione hanno rinunciato nell’ultimo miglio (come l’azienda produttrice di sneakers Golden Goose), come hanno fatto ben 13 aziende lo scorso anno.
L’icona più rappresentativa della Borsa Italiana sembra proprio essere diventata l’opera di Cattelan che svetta davanti a Palazzo Mezzanotte, storica sede del mercato nazionale: il gesto sembra indicare l’atteggiamento degli investitori, specie quelli stranieri.
[1] Sull’argomento, si veda l’articolo “Tramonto in Piazza Affari” di Laura Morelli, sulla Stampa del 28/6/2024, dal quale sono state tratte molte considerazioni e informazioni
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