IL GRANDE EQUIVOCO DEGLI EXTRA PROFITTI
Si torna a parlare di tassazione punitiva sugli extra profitti. Un buco nell’acqua anche questa volta
Brutta storia quella dei politici che parlano alla pancia invece che alla testa: il populismo è un vecchio vizio della peggiore politica, quella che punta ad acquisire facili consensi facendo leva sull’istinto della gente piuttosto che sulla razionalità e sul buon senso. Le promesse di sicuro effetto, anche se palesemente irrealizzabili, hanno le gambe corte perché prima o poi la realtà presenta il conto. La speranza dei populisti è che, quando arriva il momento del redde rationem, ci sia qualche altro a dover gestire la patata bollente.
È il caso, ad esempio, del superbonus e del bonus facciate. In un paese come il nostro, in cui la proprietà della casa di abitazione è molto diffusa, cosa può esserci di meglio che promettere lo sgravio del 110% sui lavori di ristrutturazione e manutenzione ordinaria della propria casa? Ciò vuol dire che si possono rinnovare impianti, infissi, dotazioni termiche e così via senza dover spendere un solo centesimo. A parte il caso patologico delle truffe, che, come prevedibile, non sono mancate, il vero problema è che lo Stato si deve far carico della spesa, e - anche se questo avviene a distanza di qualche anno - prima o poi il momento arriva. E infatti il Governo, già lo scorso anno, ha dovuto fare i conti con un buco che ha sfiorato i 90 miliardi di Euro.
Buco che continuerà a gravare sui disastrati conti pubblici anche per gli anni a venire, e che imporrà a chi dovrà gestire i bilanci di reperire le risorse necessarie.
Come le famose “pensioni baby” degli anni ’70 e ’80, che hanno posto a carico dei bilanci pubblici futuri (quelli di questi tempi) l’onere di mantenere generazioni di ex-lavoratori che hanno versato contributi molto inferiori alle prestazioni che sono state loro garantite.
Si potrebbe continuare all’infinito. Le misure populiste che concedono regalie a gruppi di elettori a carico dei bilanci pubblici futuri si sono susseguite nel corso dei decenni, e con i vincoli di bilancio imposti dall’Unione Europea è ora molto difficile portare ancora avanti il momento della resa dei conti.
Per questo ogni tanto appare l’idea balzana di una consistente tassazione sugli extra profitti, in modo da colpire selettivamente quelle categorie che si sono avvantaggiate in momenti storici particolari. Si parlò dei petrolieri, che avevano guadagnato a dismisura quando i prezzi del petrolio stavano aumentando in modo vertiginoso, oppure delle banche che hanno tratto enormi benefici (come si vede dai bilanci pubblicati) dall’aumento dei tassi di interesse.
Sembra l’uovo di colombo: tassiamo i “cattivi” che hanno guadagnato troppo mentre tutti gli altri soffrivano. Così diamo un segnale di equità redistributiva ed evitiamo di aumentare il livello di tassazione generale o di ridurre la spesa pubblica (azioni ambedue molto difficili da far digerire al corpo elettorale, al quale era stato promesso l’esatto contrario).
Peccato che la cosa non funzioni, e che sia estranea al nostro sistema tributario e, ancor di più, al dettato costituzionale.
Intanto dobbiamo capire chi e con quali criteri stabilisce cosa sia “extra”. Un profitto del 20% è giusto e quello che eccede è extra? Oppure è giusto il 30% o il 10%? Certo, ognuno può avere una sua legittima posizione. Ma poi perché banche e petrolieri sono da super tassare e, mettiamo, chi commercia le armi o produce merendine (che pure sono dannose alla salute dei bambini) invece no? Altri settori hanno redditività anche maggiore di quella delle banche e con rischi più contenuti.
Se si entra nella logica che alcuni tipi di profitto sono “buoni” e altri “cattivi” certamente si entra in un meandro dal quale è difficile tirar furi le gambe. Si tratta di profitti illeciti o illegittimi (come per chi commercia droga o guadagna con la prostituzione)? Ma qui il problema non è di tipo tributario: non l’Agenzia delle Entrate, ma la Guardia di Finanza o i Carabinieri andrebbero mobilitati.
La nostra Costituzione dice chiaramente che ciascuno deve contribuire alle spese dello Stato in ragione della sua capacità contributiva. E infatti – a parte i fenomeni di evasione - chi guadagna di più è tenuto a pagare più tasse. Ma la differenza di onere tributario non può risiedere in una valutazione etica e qualitativa del profitto. Se il business che genera quel profitto è lecito, allora chi guadagna 100 deve pagare imposte su 100 esattamente come deve fare chi ha un diverso settore di business. Che quei 100 derivino da agricoltura, commercio, servizi o manifattura è del tutto ininfluente: ciò che conta è che il profitto sia 100 e su quella base si devono pagare le imposte.
Tirare fuori ad ogni piè sospinto la storia della tassazione sugli extra profitti è una favola buona per gli allocchi, ma non una cosa seria. Come dimostra il fatto che, ad esempio, dalla norma sulla tassazione degli extra profitti sulle banche non un solo euro è andato nelle casse dell’erario. Le banche hanno accettato di contribuire, ma come sforzo volontario per favorire la loro capitalizzazione.
Continuare su questa strada vuol dire andare a schiantarsi contro un muro: la Corte Costituzionale sicuramente dichiarerebbe illegittima una norma del genere, perché verrebbero trattate in modo diverso grandezze uguali (il profitto, da qualunque parte esso provenga).
Cerchiamo allora di essere seri, ed evitiamo il ricorso a espedienti populistici di bassa lega.
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