LIBIA, UN CAOS SENZA FINE

LIBIA, UN CAOS SENZA FINE

Mar, 09/08/2020 - 11:14
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Le guerre “per procura” a meno di 800 miglia da noi.

 

Prosegue, e si conclude, questa settimana, l’analisi di Filippo Verre sulla complicata situazione del Mediterraneo, un’area troppo vicina, geograficamente e culturalmente, per giustificare la sostanziale irrilevanza, quando non l’assenza, dell’Italia e dell’Europa dalla scena politica.

Il focus è sulla Libia, oggi non più uno stato sovrano ma un mero artificio politico che rischia di trasformarsi in “terra di nessuno”. E nel vuoto lasciato dall’Italia, mai riempito dall’Unione Europea, si stanno inserendo – attraverso l’appoggio esplicito o mascherato ai diversi player regionali – la Russia e la Turchia, pronte ad occupare uno spazio strategico formidabile e un territorio ricco di materie prime.

Dalla Libia partono gli snodi per i futuri equilibri politici, se non militari, dell’intera regione.

Buona lettura, dunque.

 

Da ormai diversi anni a questa parte, la Libia non esiste politicamente più in quanto Stato unitario. Tuttavia, nei quotidiani e nei principali notiziari europei si continua a fare riferimento alla Libia come se la suddetta fosse “semplicemente” un Paese in difficoltà. In realtà, di fatto questa grande landa desertica affacciata sul Mediterraneo non costituisce più una entità statale degna di questo nome. Al contrario, si tratta di quella che tecnicamente viene definita una fictio iuris (finzione giuridica), ovvero un artifizio istituzionale volto al mantenimento dello status quo territoriale al fine di evitare che il suolo libico diventi una vera e propria res nullius (cosa di nessuno) per il diritto internazionale. Tale situazione, che si è creata con la sciagurata dipartita politica e terrena di Muʿammar Gheddafi nellottobre 2011, sta di fatto trasformando il territorio nazionale libico in terra di contesa tra potenze regionali e globali, vista soprattutto la grande abbondanza di materie prime presenti nell’area.

Mappa della Libia

Nonostante retoriche conservatrici e narrazioni filo-unitarie, ad oggi la Libia è divisa in tre macro entità:

  • la Tripolitania, sede del governo riconosciuto dalla comunità internazionale con a capo Fayez al-Sarraj;
  • la Cirenaica, luogo di insediamento del ribelle e potentissimo generale Khalifa Haftar;
  • il Fezzan, un’enorme distesa sabbiosa ed isolata preda di bande armate, tribù berbere e trafficanti di uomini.

 

Oltre a ciò, quello che da alcuni anni si sta verificando su questi territori così aspramente contesi è una vera e propria proxy war, ovvero una guerra per procura dove nazioni sovrane appoggiano questo o quel candidato allo scopo di trarre i maggiori vantaggi geopolitici.

In tale ottica, si tenga presente che la Cirenaica di Haftar ha ottenuto ingenti aiuti dagli Emirati Arabi e dall’Egitto, oltre ad un supporto russo più sfumato. Proprio Mosca ha messo a disposizione del generale la rinomata Società Warner, una organizzazione paramilitare russa composta da militari mercenari ben addestrati (ideologicamente vicini al Cremlino) per svolgere i c.d. lavori “senza insegne”[1]. Inoltre, secondo un report redatto dagli esperti delle Nazioni Unite, la Russia avrebbe facilitato l’invio in Libia di uomini appartenenti ad una milizia alleata siriana, una forza lealista che ha sostenuto Bashar el-Assad e che è diventata la quinta colonna delle operazioni militari russe nell’area MENA (Middle East and North Africa)[2].

Anche la Tripolitania ha ricevuto e continua copiosamente a ricevere ingenti sostegni diplomatici e militari. Per i primi, si faccia riferimento alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale che sostengono apertamente il governo di Tripoli come legittimo successore al governo dittatoriale di Gheddafi. Per i secondi, ci ha pensato la Turchia di Erdogan, sempre più desiderosa di espandersi nel Mediterraneo meridionale anche a spese degli interessi energetici dell’Italia. La presenza turca in quell’area non è certamente storia recente. Fin dai tempi di Solimano il Magnifico (1494 – 1566) gli Ottomani hanno controllato vasti territori costieri afferenti all’attuale Tripolitania[3]. Oggi, in linea con la politica neo-ottomana di un Erdogan sempre più in crisi di consensi interni, la Libia torna ad essere di moda in Turchia, questa volta non a Istanbul ma presso i palazzi del potere di Ankara. Negli ultimi mesi, centinaia di “consiglieri militari” di etnia turcomanna sono stati fatti affluire in Libia con funzione speculare ai mercenari russi che sostengono Haftar. In aggiunta a ciò, a novembre dello scorso anno il governo turco ha siglato un accordo di cooperazione militare con Tripoli, dove si trova il Governo di Accordo Nazionale libico (GNA), facendo scattare immediatamente Ankara ai primi posti nelle liste di preferenza tripolitane anche in chiave diplomatico-finanziaria.

Muhammar Gheddafi

In questo quadro così complesso e denso di attori impegnati sul campo, che ruolo gioca Roma in una delle partite più importanti nella recente storia diplomatica italiana? Ad essere generosi, il nostro Paese è una sorta di comprimario di lusso nella contesa. In chiave più realista, l’Italia è quasi del tutto irrilevante. Come ebbe più volte a dire Henry Kissinger, Segretario di Stato americano durante la tempestosa presidenza Nixon: “Nelle relazioni internazionali bisogna essere disposti a tutto, anche a fare la guerra”[4]. E noi, senza dubbio alcuno, non siamo minimamente disposti ad impegnarci nello scacchiere libico, né da un punto di vista politico né tanto meno a livello militare. Sembra quasi che la nostra classe dirigente affronti il “tema Libia” di controvoglia, le vicende legate alla disputa tra Al-Sarraj e Haftar sono vissute con insofferenza e malcelata antipatia. Conseguentemente, le ricette proposte non sortiscono concreti effetti. Nei giorni scorsi, il nostro ministro degli Esteri è volato a Tripoli per osservare direttamente sul campo gli sviluppi della tregua siglata tra i contendenti dopo ben 17 mesi di conflitto. Tuttavia, la strategia della nostra Farnesina sembra stantia e poco modernizzata; Di Maio punta alla ripresa dei vecchi accordi italo-libici firmati da Silvio Berlusconi, con l’obiettivo di dare nuovo impulso agli investimenti italiani nel Paese. La missione italiana dovrebbe mirare anche a riguadagnare spazi di manovra dopo la perdita di influenza in un’entità nazionale in bilico fra violenza e tribalismo.

Al Sarraj

 La rotta seguita da Roma sembra essere incentrata su un sostegno diplomatico e finanziario, aspetti senza dubbio rilevanti ma che non sono utili ad un Paese lacerato da aspre contese in piena guerra civile. Ciò di cui Al-Sarraj ha bisogno in questa fase è un chiaro supporto politico che confermi il suo mandato precario, oltre ad armi e militari in grado di garantirgli la supremazia contro il suo potente rivale. Al momento, tali aiuti gli sono stati forniti dalla Turchia, unico vero player di livello che si è speso sul campo con uomini e mezzi. Le nazioni europee latitano in tal senso; l’Italia, così come anche la Francia che ha espresso simpatie per Haftar, non sono disposte ad impegnarsi più di tanto nella viscida e rischiosa questione libica. Di conseguenza, i risultati sperati non possono che essere minimi, o comunque meno significativi rispetto a Turchia e Russia, le uniche vere potenze che hanno investito seriamente sia a livello politico che militare in Libia.


[1] Si tratta del più comune e meno politicamente corretto “lavoro sporco”.

[2] Il report è disponibile al seguente link: https://formiche.net/2020/05/mercenari-russia-libia/.

[3] Nello specifico, a partire dal 1551 quando venne ufficialmente istituito l’Elayet ottomano (suddivisione amministrativa) in Tripolitania.

[4] Henry Kissinger, Ordine Mondiale, Mondadori, Milano 2017.