VENDETTA TREMENDA VENDETTA
La vendetta è spesso il motore di guerre e disastri
Diceva il commissario Ricciardi (protagonista di una bella serie creata da Maurizio De Giovanni) che tutti gli omicidi avvengono per tre motivi: soldi, passione e vendetta. Su soldi e passioni non c’è molto da dire: è intuitivo che denaro e amore (con le sue derivate di gelosia, desiderio, tradimento, ecc.) possono scatenare gli istinti più violenti dell’uomo.
Concentriamoci però sulla vendetta. Se vogliamo capire, al di là delle vicende private, cosa muove (o meglio giustifica) la situazione di belligeranza continua in Medioriente e non solo, è proprio dalla vendetta che dobbiamo partire.
Un sentimento istintivo, animalesco, primordiale, eppure molto presente sulla scena politica attuale, la vendetta è spesso definita come l'azione motivata dal rancore di provocare un danno materiale o morale di varia gravità, propria di chi si ritiene offeso e cerca di farsi giustizia contro una persona o un gruppo in risposta ad un'azione spiacevole. Altrimenti detto, la vendetta è il motore che provoca un’azione uguale e contraria al fine di causare, in chi ha innescato il processo, un dolore di intensità pari a quella sofferta da chi si propone di attuarla.
Il contrasto endemico fra israeliani e palestinesi può essere spiegato, o meglio giustificato, agli occhi di chi appartiene a una parte o all’altra, proprio col desiderio di vendetta. La mia parte ha subito un torto, un’ingiustizia o un’offesa e io mi sento giustificato, o meglio obbligato, a causare all’altra parte un’analoga sofferenza. Tutta la vicenda della guerra fra le due etnie può essere letta come un susseguirsi di azioni e reazioni, in cui è impossibile (e anche inutile) risalire al primo che ha offeso l’altro, ma in cui è chiaro che nessun delitto potrà restare impunito. Ed è altrettanto chiaro che la serie di disastri, guerre, odio etnico non potrà mai avere fine, perché ci sarà sempre qualcosa da vendicare.
La vendetta è talmente incistata nelle vicende umane che la letteratura (e il cinema) non può che descriverla, e talvolta esaltarla, anche nei suoi momenti più alti e drammatici: dall’Eneide a Shakespeare (Amleto, Il Mercante di Venezia), su su fino a Rambo 2 e al Gladiatore, solo per citarne alcuni).
Purtroppo l’insegnamento evangelico del porgere l’altra guancia non ha avuto grande fortuna presso il genere umano, dove anzi vige la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Oltre la linearità dell’enunciato, conviene soffermarsi su una caratteristica della vendetta secondo questa antica e sempre attuale legge: la proporzionalità. La vendetta deve essere giusta, proporzionata al torto subito e non eccessiva.
Nessuno metteva in discussione la legittimità per Israele di rispondere all’attentato del 7 ottobre, ma tutti concordano nel considerare eccessiva la reazione, e questo ha reso lo stato di David e di Sion colpevole agli occhi del mondo per eccesso di vendetta. Tanto che il torto subito è stato da molti considerato un mero pretesto per realizzare lo scopo dichiarato di Netanyahu: distruggere Hamas e farlo scomparire, esattamente come per i Palestinesi e molti Stati arabi è necessario eliminare lo Stato di Israele.
C’è quindi un evidente problema di proporzionalità nella reazione di Israele all’attacco del 7 ottobre, problema che ha causato la risentita reazione di Biden (e l’ostilità della pubblica opinione mondiale) e il conseguente passaggio di Israele dalla parte del torto.
Con la stessa logica, sarà ora interessante vedere come reagiranno gli Iraniani all’uccisione del capo di Hamas Ismail Haniyeh, avvenuta in territorio persiano in occasione della cerimonia di insediamento del nuovo Presidente Massoud Pezeshkian. Quest’ultimo, considerato un moderato (anche se è tutto da verificare l’effettivo potere che potrà esercitare in uno Stato clericale in cui chi comanda davvero è la guida suprema, l’ayatollah Seyyed Ali Hosseini Khamenei), si è infatti affrettato a dichiarare che l’Iran risponderà adeguatamente all’omicidio del sodale palestinese, ma eviterà l’escalation della guerra. Come dire: risponderemo perché ne siamo obbligati, ma non commetteremo l’errore di eccedere nella vendetta.
Ma anche dalle nostre parti – intese come mondo occidentale - la politica attraverso la vendetta è in realtà molto popolare: non occorre andare indietro alle torri gemelle e all’11 settembre (quando l’allora presidente Bush dichiarò guerra senza quartiere a Osama Bin Laden e ai paesi che lo ospitavano, o che erano sospettati di averlo sostenuto, primo fra tutti l’Afghanistan), per trovare esempi di linea politica guidata dal senso della vendetta. Basta considerare la vicenda di Donald Trump, la cui attuale candidatura alla Casa Bianca è tutta ispirata al senso di vendetta contro chi ha ostacolato il suo precedente mandato e, soprattutto, ne ha impedito la rielezione quattro anni fa, tanto da ispirare l’irresponsabile attacco al Campidoglio. C’è davvero di che essere preoccupati per l’eventualità che il tycoon esca vincitore dalla competizione elettorale con Kamala Harris, ma anche che ne esca sconfitto e non voglia riconoscere il risultato delle urne.
Agire sotto l’impulso della vendetta vuol dire assecondare i peggiori istinti della gente, anche se questo porta una notevole dose di consensi “di pancia”; considerare “inevitabile” dover rispondere agli attacchi subiti con reazioni che provochino uguali dosi di dolore e sofferenza a popolazioni incolpevoli significa innescare un meccanismo che non avrà mai fine. Mai come ora si sente la mancanza di leader mondiali che siano in grado di affermare le ragioni del buon senso e della pace su quelle dello spirito di rivalsa, ma purtroppo questo secolo non ha ancora visto statisti di tale statura e autorevolezza. Molto più facile assecondare gli istinti, anche se questo conduce diritti verso la catastrofe.
- Per commentare o rispondere, Accedi o registrati