Ucraina: 3 anni di guerra civile, e un futuro incerto

Ucraina: 3 anni di guerra civile, e un futuro incerto

Mar, 05/09/2017 - 07:41
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Il racconto dei due articoli precedenti era arrivato alla deposizione e precipitosa fuga dell’ex premier Viktor Janukovyc, leader del Partito delle Regioni, molto vicino alla Russia di Putin e oligarca molto discusso, che era riuscito ad accumulare una ingente fortuna. I disordini di Maidan assumono ben presto, al contrario delle rivoluzioni “colorate” nate nelle ex repubbliche sovietiche un decennio prima, la connotazione di moti violenti, finalizzati non tanto a riformare in senso democratico lo stato attraverso il confronto politico, quanto a sovvertire il regime, obiettivo raggiunto con la cacciata di Janukovyc.

 

Con l’insediamento di Oleksandr Turcinov come presidente ad interime, la situazione si radicalizza e la rivolta si trasforma in vera e propria guerra civile. La decisa svolta in senso accentratore trova la forte resistenza delle regioni orientali e meridionali: aree ricche del paese che non accettavano il continuo deflusso di risorse in favore di Kiev e la mancanza di ogni autonomia, all’interno di uno Stato che dichiarava di voler tagliare lo storico cordone ombelicare con Russia.

 

Alle crescenti proteste delle popolazioni in maggioranza russa di queste regioni, Turcinov risponde con un deciso innalzamento del livello dello scontro, avviando una vera e propria guerra civile pur ufficialmente mascherata da “lotta al terrorismo”.

 

Gli Stati Uniti finanziano Maidan a piene mani, contando sull’Europa alla quale viene sostanzialmente demandato il compito di controllare il territorio; la Russia, sentendosi minacciata ai propri confini, si focalizza sulla Crimea, concentra le truppe in prossimità del territorio ucraino e appoggia la resistenza delle popolazioni filorusse nelle regioni orientali e meridionali, anche se ufficialmente ha sempre negato il suo coinvolgimento militare diretto.

 

Uno degli atti più significativi del Governo in questo periodo è l’abolizione del russo quale lingua ufficiale del paese, oltre a quella ucraina, che rimane quindi oggi l’unica.

 

In marzo la Russia intensifica la propria presenza militare in Crimea e spinge alla riannessione della penisola sancita dal referendum approvato dal 93% degli elettori. La Crimea è una regione di capitale importanza dal punto di vista militare, con il porto di Sebastopoli e la supervisione sulle rotte del Mar Nero, e la Russia non poteva permettersi di cederne il controllo a un governo in cui l’influenza degli occidentali e degli americani era prevalente. Del resto, sessanta anni prima, pare che l’annessione della Crimea all’Ucraina, ufficialmente presentata come regalo per celebrare i 300 anni di amicizia fra la Russia e la stessa Ucraina, fosse stata originata da un’iniziativa personale dell’allora segretario del PCUS Nikita Chruščëv, ucraino di adozione come si è detto all’inizio, in un momento di non particolare sobrietà.

 

Il 25 maggio 2014 si tengono dunque le elezioni presidenziali, vinte con 9,8 milioni di voti pari al 54,7% dei consensi dal quarantanovenne Petro Poroshenko, di Kiev. Juljia Tymoscenko, con un misero 12,8%, giunge molto probabilmente al termine della sua intensa carriera politica.

 

Poroshenko

 

Il nuovo presidente, sostenitore della prima ora dei ribelli di Maidan e supporter dell’entrata dell’Ucraina nella Nato, presentava un programma piuttosto moderato, ribadendo l’autonomia del paese ma anche la necessità di un dialogo con la Russia. In effetti Poroshenko, imprenditore dolciario accreditato da Forbes di un patrimonio personale di 1,3 miliardi di dollari, gestiva fino a poco tempo prima redditizi stabilimenti di cioccolata e caramelle in territorio russo. Curiosamente, per almeno due anni i Russi non hanno impedito al politico che li indicava come nemici di fare profitti con le fabbriche stabilite nel loro territorio.

 

Gli ultimi tre anni sono stati funestati da una guerra civile di incredibile crudeltà, con l’esercito ucraino che ha fatto ricorso anche alla coscrizione dei riservisti e all’appoggio di truppe mercenarie e gruppi nazionalisti per distruggere, soprattutto nelle regioni dell’est a maggioranza russa, la resistenza degli anti-governativi sicuramente supportati da mezzi militari e finanziari russi. Regioni come il Donbass, in cui gran parte della popolazione non accetta l’impostazione governativa e chiede maggiore autonomia e rispetto, sono state distrutte e intere città come Donietsk praticamente rase al suolo, le vie di comunicazione interrotte e i servizi pubblici ormai inesistenti.

 

ukraine

 

Gli scontri si sono raffreddati a partire dal febbraio del 2015, con il raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco a Minsk fra la Russia da una parte, che pure ha sempre ufficialmente negato la sua partecipazione al conflitto, e Ucraina, Francia e Germania dall’altra: punto centrale dell’accordo era l’impegno di Kiev a garantire una maggiore autonomia ai territori dell’est. Da questo momento gli scontri sono proseguiti, ma a un livello minore, ed i mass media hanno iniziato ad ignorare totalmente questo scenario di guerra.

 

Il paradosso politico è quello di un governo che formalmente sostiene l’obiettivo di vicinanza all’occidente, agli Stati Uniti all’Unione Europea, nonostante la freddezza di Bruxelles che dopo i primi appoggi di natura finanziaria ha assunto un ruolo molto più defilato: in realtà però quello stesso Governo continua a sopravvivere con grande difficoltà, non essendo in grado di rimborsare i prestiti alla Russia e in una situazione di totale carenza di risorse finanziarie che hanno gettato il paese nell’assoluta indigenza.

 

Da un punto di vista economico l’Ucraina, pur essendo un crocevia nel trasporto del gas dalla Russia, grande produttrice, all’Europa occidentale, non riesce a fattorizzarne il vantaggio avendo interrotto i rapporti di interscambio con la Russia stessa. Paradossalmente il gas ucraino, acquistato in Polonia, è ancora di provenienza russa ma, subendo un passaggio ulteriore, ha un prezzo ancora più alto.

 

Il capitale finanziario di matrice statunitense, seguendo il modello già utilizzato con successo nella crisi argentina, rileva una quota importante del debito pubblico ucraino a prezzi di saldo.[1] Il fondo Franklin Templeton acquista il 40% del debito nazionale, a fine agosto 2014, per un valore nominale di 6 miliardi di dollari. Qualche mese prima l’ex premier Janukovyc aveva invece rifiutato l’offerta di un credito di 15 miliardi di dollari da parte della Russia, in cambio della rinuncia del trattato di associazione all’Europa.

 

 

 

Nel 2015 scade una tranche di debito di 11 miliardi, e il Fondo Monetario interviene con un prestito di 17,5 miliardi. Ma si calcola che il debito complessivo ammonti a 110 miliardi, quando gli asset di maggior valore del paese, in gran parte utilizzati per arricchire gli oligarchi, sono ormai svenduti all’estero.

Lo stato è allo sbando, la struttura produttiva e le vie di comunicazione devastate dagli anni di guerra, l’esercito continua a combattere i filorussi dell’est ma senza mezzi adeguati: ai riservisti è fatto obbligo di procurarsi direttamente vestiario e vettovaglie. La corruzione è ormai diffusa a tutti i livelli e non c’è attività che ne sia immune.

 

Quali sono i possibili scenari di una situazione così compromessa?

 

Il peggiore è quello della diffusione del conflitto fra Russia da una parte, che ovviamente non gradisce avere il nemico alle porte di casa, e Stati Uniti dall’altra, data la cronica latitanza dell’Europa dagli scenari decisivi. Da questo punto di vista, l’elezione di Donald Trump alla Presidenza degli USA aveva almeno fatto sperare in una soluzione concordata fra le due potenze, dati i buoni rapporti personali del neo Presidente con Vladimir Putin. Gli ultimi avvenimenti, soprattutto il lancio di missili in Siria e la crisi coreana, oltre alle più recenti dichiarazioni di Trump hanno invece rappresentato una doccia gelata sulle speranze di pace.

 

Rispetto al programma di “America first”, col quale Trump dichiarava di non voler più fare il poliziotto del mondo intromettendosi negli affari degli altri Paesi ma di concentrare energie e risorse in favore degli americani, sembra di essere tornati indietro ai tempi di Obama.

 

Se lo scenario peggiore non è scongiurato, ma purtroppo ha ripreso vigore in questi ultimi tempi, la soluzione più ragionevole pare essere quella, ancora tutta da costruire, di una divisione politica dell’Ucraina in due macro regioni: quella occidentale, da Leopoli a Kiev, sotto la dominante influenza occidentale ed in particolare polacca; e quella orientale a guida filo-russa. I problemi principali saranno però come realizzare la divisione dei territori e la coesistenza delle due nuove realtà come stati indipendenti e sovrani ma vicini.

 

Da un punto di vista economico, per l’Europa la soluzione della crisi ucraina è un passaggio indispensabile sia per allontanare gli scenari di guerra che potrebbero essere devastanti e senza ritorno, sia per normalizzare i rapporti commerciali con la Russia, il mercato più vicino, interessante e ricco per l’Europa occidentale. Mercato ancora fortemente penalizzato dall’embargo imposto dagli Stati Uniti sulle merci russe.  Gli stessi prezzi e la disponibilità dell’energia, influenzati dal trasporto in territorio ucraino, sono un fattore decisivo specie per paesi come l’Italia fortemente dipendenti dal consumo di gas.

 

Ma soprattutto è politicamente e moralmente inaccettabile, e suscettibile di degenerare in un inarrestabile allargamento del conflitto, una situazione di guerra civile che dura ormai da anni ai confini dell’Europa Unita e a soli 900 chilometri dall’Italia.

 

 


[1] Circostanza riferita da Giulietto Chiesa nel capitolo  “Le ragioni della Russia e l’economia ucraina” contenuto in “Attacco all’Ucraina” di S. Teti e M. Carta, Sandro Teti Editore, Roma 2015,  probabilmente fino ad ora la più completa rassegna ragionata disponibile in Italia sugli eventi di cui ci occupiamo nell’articolo