Ucraina: 10 anni di mancate riforme
Abbiamo visto nel precedente articolo come, dopo la dissoluzione dell’URSS, nel 1991 l’Ucraina dichiara la sua indipendenza e nel 1996 il Parlamento emana la nuova costituzione. Nel 2004 la nazione è proclamata repubblica parlamentare, grazie soprattutto all’influenza dell’ala riformatrice.
Le elezioni del 26 dicembre di quell’anno sono vinte in stretta misura da Juscenko, sostenuto dalla mobilitazione popolare della “rivoluzione arancione” guidata da Juljia Tymoscenko, leader avvenente ma discussa oligarca, che in breve tempo era riuscita a costruire una notevole fortuna sia patrimoniale che politica. Juscenko è Presidente della Repubblica dal 2005 al 2010 e la Tymoscenko premier dal 2007 al 2010.
In questo quinquennio l’Ucraina si avvicina molto all’occidente, accarezzando l’idea di un improbabile ingresso nell’Unione Europea e prendendo invece gradualmente le distanze dalla Russia, che assicurava forniture di gas a prezzo politico, notevolmente inferiore a quello di mercato. La Russia continuava inoltre a sostenere, con ingenti prestiti, le finanze di uno Stato che l’oligarchia al potere depauperava delle sue ricchezze e delle sue risorse per l’arricchimento personale di una ristretta casta di privilegiati. In questo periodo, per di più, la mafia ucraina consolida il suo potere e il controllo diffuso dei gangli dell’economia del paese.
Sostenuto dal forte appoggio russo, al ballottaggio delle elezioni presidenziali del 2010 Janukovyc sconfigge la Tymoscenko e diventa Presidente. Si apre un periodo di avvicinamento alla Russia, senza però formalmente rinnegare l’idea di adesione all’UE che, da parte sua, continua nel consueto atteggiamento indeciso e ondivago.
Nel 2013 Janukovyc si rifiuta di firmare un accordo con l’Unione Europea fondamentale per la sopravvivenza del paese e tratta invece un nuovo prestito dalla Russia di Putin, col quale il paese rientra decisamente a pieno titolo nell’orbita russa. Questa è la causa scatenante dei disordini e delle sommosse che culminano nel novembre 2013 con l’occupazione di Maidan, la Piazza centrale di Kiev, da parte dei manifestanti filo-europei.
La protesta contro Janukovyc è il punto di passaggio dalla cosiddetta “rivoluzione arancione”, nata in Ucraina a metà del Duemila in modo simile alle altre “rivoluzioni colorate” sorte in quegli anni in diversi paesi ex comunisti, a una vera e propria rivoluzione classica, basata sull’uso della violenza dal basso e sostenuta da una minoranza organizzata militarmente.[1]
Le rivoluzioni colorate erano caratterizzate da una dimensione non violenta del cambiamento, finalizzata a un negoziato con i regimi in carica che portarono in generale a riforme che furono perlopiù in grado di rinnovare i sistemi politici ed economici dei diversi paesi.
In Ucraina, invece, non si è verificata nel decennio successivo alcuna trasformazione di regime e sono rimaste in vita le stesse élite che già controllavano il Paese. La rivolta ha quindi assunto il carattere di violenza dal basso, sostenuta da una minoranza organizzata militarmente, che ha contrastato i negoziati in corso, e spalancato la strada alla spirale di violenza.
Da quel momento inizia la via crucis del paese, con scontri violenti che vedono intervenire, al fianco dei ribelli, gruppi paramilitari nazionalisti che in alcuni casi si richiamano esplicitamente a ideologie nazi-fasciste. Il 22 febbraio 2014, dopo un’ecatombe di 150 morti e oltre 1.000 feriti, Janukovyc fugge con la famiglia da Kiev, portandosi dietro l’enorme fortuna accumulata negli anni di governo; la Tymoscenko, che in precedenza era stata incarcerata per corruzione, viene liberata e il Parlamento nomina Presidente ad-interim, in attesa di nuove elezioni, Oleksandr Turcinov, braccio destro della stessa Juljia.
Anche se il deposto leader filo-russo Janukovyc si era rivelato corrotto e sostanzialmente attento agli interessi personali più che a quelli del paese, non va dimenticato che si trattava comunque di un Presidente, liberamente eletto al termine di una competizione elettorale non contestata e la sua destituzione si presenta quindi come vero e proprio golpe, finanziato da ambienti europei e sostenuto dagli Stati Uniti di Obama. L’obiettivo era chiaramente quello di indebolire il gigante russo fomentando un focolaio di rivolta ai confini del suo territorio.
L’Ucraina si è ormai incamminata lungo un piano inclinato che conduce diritto al disastro attuale. La crisi precipita in una guerra civile che riflette un confronto fra Russia e Occidente di intensità mai raggiunta dai tempi della guerra fredda.
La prossima settimana, con l’ultimo degli articoli di questa serie, ripercorreremo, dopo la riannessione della Crimea da parte della Russia di Putin, gli anni del discusso presidente Petro Poroshenko che hanno condotto alla recrudescenza della guerra civile nel Donbass, cercando di capire quali sono gli scenari che si prospettano.
[1] Tesi riportata da Paolo Calzini nel saggio “Ucraina 2004-2014: un decennio allo specchio” contenuto in “Attacco all’Ucraina” di S. Teti e M. Carta, Sandro Teti Editore, Roma 2015, probabilmente fino ad ora la più completa rassegna ragionata disponibile in Italia sugli eventi di cui ci occupiamo nell’articolo
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